Venezia, 1999: Harald Szeemann, in qualità di direttore della Mostra Internazionale di Arti Visive, porta alla Biennale di Venezia 19 artisti cinesi. L’approdo dell’arte contemporanea cinese in Occidente è una delle conseguenze delle aperture commerciali decise alla fine degli anni Ottanta dalla nuova politica economica di Pechino, cioè di quello che oggi è noto come «capitalismo di Stato». Non a caso il consigliere di Szeemann in quella occasione fu Uli Sigg, un imprenditore svizzero che aveva proficuamente lavorato in Cina e che sarebbe diventato il maggiore collezionista al mondo di arte contemporanea cinese.
A Venezia, tra gli altri, arrivano due artisti separati da due soli anni di età, ma in realtà appartenenti a due tipologie radicalmente diverse. Uno era Chen Zhen (1955-2000), figlio di medici nato a Shanghai e membro della «tribù» degli artisti-sciamani, in dialogo con la filosofia, le scienze, la religione, che in Occidente aveva già stabile e diffusa cittadinanza: Mario Merz, Joseph Beuys e naturalmente Marina Abramovic, Ana Mendieta, Wolfgang Laib e molti altri ancora rappresentano questo tipo di artista.
L’altro era Ai Weiwei (1957), che pure utilizzando alcuni elementi propri di Chen Zhen (il mobilio vecchio o antico, il gusto per l’installazione giocata anche sull’impatto visivo, la cultura cinese premaoista eccetera) appartiene invece alla generazione che all’arte come atto non solo formale ma anche rituale preferisce l’arte come veicolo di messaggi a carattere sociale e politico. Il rischio implicito è, quando l’opera non funziona, lo scadimento in slogan di una banalità sconcertante.
Ai avrebbe proseguito con sempre maggiore insistenza su questa strada, non senza un certo sgradevole opportunismo, come quando, in tempi recenti, per dimostrare quanto la nostra pietà di voyeur mediatici fosse pelosa, si è fatto fotografare sulla battigia di Lesbo nella stessa posa di Aylan Kurdi, il piccolo migrante naufrago, morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia nel 2015.
Ai Weiwei arrivava a quella Biennale dopo avere tentato la via del cinema come allievo della Academy Film di Pechino, che lasciò senza terminare gli studi per trasferirsi a New York. Il fatto che abbia le stesse iniziali di Andy Warhol sembrerebbe non del tutto improprio o casuale, visto che, una volta in America, si abbevera ai suoi scritti e alla sua opera; e, come il suo maestro, avrebbe ben presto tramutato sé stesso in una specie di icona vivente. Giungerà, un giorno, a citarlo (ma forse l’intenzione non era quella, bensì un’idea tragicamente didascalica) apponendo il logo della Coca-Cola su antichi vasi cinesi.
A New York, come ogni ragazzo previdente che pur avendo ambizioni artistiche sa che in questi casi è bene costruirsi un’alternativa, Ai studia design e architettura alla Parsons School of Design. A quella famosa Biennale szeemaniana, in realtà, Ai passò quasi inosservato. Nato nel 1957 a Pechino, figlio di Ai Qing, un illustre poeta perseguitato dal regime, mette subito a frutto quanto aveva imparato come artista e come designer, costruendo un tavolo «impossibile», cioè a croce, utilizzando due mobili in noce della dinastia Qing.
La tigre concettual-etno-minimalattivista all’epoca lanciava già suadenti ruggiti e per quanto riguarda la parte «etno» il giovane Ai aveva dalla sua anche nozioni e abilità (commerciali) d’antiquario: è con questa attività che si era mantenuto per qualche anno, oltre al blackjack con cui, negli anni Ottanta in America, spopolava nei casinò di Atlantic City. Che sappia giocare con straordinaria efficacia su più tavoli anche nella vita è un dato di fatto (artista, attivista, regista, fotografo, designer, architetto, curatore, blogger eccetera).
Sul versante artistico, l’opera del primo Ai Weiwei è spesso un mix tra il citazionismo modernariale di Flavio Favelli (che però ha dalla sua un pizzico d’ironia) e il ready made ibridato di Theaster Gates: «Kippe (Parallele)» del 2016 è una scultura costruita con un attrezzo ginnico (inutile ricordare quanto lo sport sia centrale nella politica dei regimi totalitari) che imprigiona frammenti di legno di templi distrutti della dinastia Qing. Ma già nel 1995 (due anni dopo il suo ritorno in Cina per assistere il padre ammalato) sulle riviste specializzate era apparsa la celebre sequenza fotografica in cui faceva cadere, mandandola in frantumi, un’urna funeraria della dinastia Han: la performance era una denuncia della distruzione culturale di una civiltà millenaria da parte della Rivoluzione Culturale.
Curatori e guaritori
Chen Zhen è morto a soli 45 anni nel 2000, ma anche avesse avuto più tempo per aggiornarsi, non solo non avrebbe mai messo in scena una performance come quella, ma non ce lo vediamo neanche a smanettare su Instagram, ormai diventato il principale «medium» espressivo di Ai Weiwei. E, prima che le autorità cinesi lo chiudessero nel 2009, c’era il suo blog: «Il blog per me è come il disegno, dichiarava ad Hans UIrich Obrist. Leggo le mail, scrivo, fotografo».
Ma andiamo per ordine. Nel 2003 la Biennale di Venezia diretta da Francesco Bonami offrì, nella sezione curata da Hou Hanru, una nuova, cospicua partecipazione cinese. Nonostante la città, in quanto incarnazione della «riorganizzazione globale delle relazioni tra il potere politico, economico e culturale», fosse al centro della sezione come «Zona d’urgenza» (questo il titolo scelto da Hou Hanru), capace di predire «l’avvento di molteplicità, complessità, contraddizioni, conflitti e creatività», e nonostante il fatto che all’epoca Ai Weiwei fosse forse più noto come architetto che come artista, lui non c’era.
Insomma, in una Biennale intitolata «Sogni e conflitti», Ai non venne considerato un sognatore abbastanza fantasioso e non era ancora abbastanza attivista per essere conflittuale. Bonami, che ricorda di avere incontrato Ai Weiwei intorno al 2005, parla di uno «studio che sembrava il deposito di un antiquario, con tutte le sue sculture fatte con sedie e tavoli cinesi antichi. Non erano nemmeno malissimo, ma gli mancava qualcosa. (...) C’è nel suo lavoro un’artificialità che a volte produce anche cose dignitose, ma spesso è solo uno strumento di autopropaganda».
Bonami è probabilmente il più feroce (e non da ieri) tra i pochi stroncatori di Ai Weiwei («è un po’ come Bocelli. Parlarne male è un crimine a priori»). Secondo lui è sempre stato «un arrampicatore stratega furbissimo che pur di diventare famoso avrebbe fatto di tutto». Un attivista arrivista, insomma. Nello stesso 2003, peraltro, il progetto di Ai Weiwei e di Herzog & De Meuron per il «nido», il nuovo stadio olimpico di Pechino, vinse il concorso internazionale.
No, Ai Weiwei non era ancora l’attivista che l’11 ottobre 2011, quando il «Wal Street Journal» gli assegna il premio come «Innovatore dell’anno», manda a ritirare il riconoscimento la collega Marina Abramovic, alla quale dice: «Ci ho messo tutto il mio impegno per smettere i panni dell’artista e diventare un vero essere umano». In effetti, come ha scritto Karen Smith nel catalogo dell’antologica del 2016 a Palazzo Strozzi a Firenze, «esiste un Ai Weiwei pre-detenzione, l’“artista e provocatore”, e un Ai Weiwei post-detenzione, l’“attivista e dissidente”. Tra i due vi è una differenza sostanziale».
Se per Bonami Ai è sempre lo stesso, prima e dopo l’arresto del 3 aprile 2011 all’aeroporto di Pechino e il rilascio 81 giorni dopo, con la proibizione di lasciare il Paese per un anno, per molti altri osservatori, evidentemente, si è trattato di una vera e propria conversione in carcere. Legittimo o meno, il capo d’accusa, simile a quello che portò Al Capone ad Alcatraz, cioè l’evasione fiscale (nel caso dell’artista cinese in merito all’attività di Fake Design, l’azienda diretta dalla moglie, Lu Qing), non è il massimo per un aspirante eroe della dissidenza.
Ma al di là della pretestuosità o meno di quella detenzione, non è escluso, anzi è molto probabile, che quella vicenda sia stata l’elemento decisivo per «staccare» una concorrenza assai agguerrita e fare di Ai Weiwei uno scultore-installatore che sino a dieci anni prima non emergeva dalla media della sua generazione, l’artista cinese contemporaneo più noto al mondo.
Arrestato e pesantemente multato (oltre 2 milioni di dollari) per le sue idee e per ciò che diceva più che per ciò che faceva, almeno secondo quelli che non credono alla «pista fiscale», è diventato popolare quando ha dato un colpo di acceleratore al pedale della «denuncia sociale» aumentando nel motore il propellente pop: i mattoncini Lego e una forma di ready made più riconoscibile (canotti e giubbotti di salvataggio, zainetti scolastici ecc.).
Ghost Town in Mongolia
È inevitabile chiedersi che tipo di dissidente sia un artista che è anche titolare, in patria, di un attivo e prolifico studio di architettura. Nel 2013 la sua galleria italiana di riferimento, Continua di San Gimignano (e Pechino), ha approfondito con una mostra questo versante, che spazia dalla progettazione e dallo sviluppo di un quartiere artistico a Pechino a indagini sul campo, come quella effettuata dopo il terremoto che nel 2008 ha colpito la regione di Sichuan provocando 70mila vittime; in questo caso l’artista, con un arruolamento tramite blog, ha messo insieme una squadra che ha rivelato l’infima qualità delle costruzioni pubbliche della zona, riuscendo a renderne noti i risultati nonostante la successiva chiusura forzata del blog.
Documentatore compulsivo, Ai Weiwei produce per ogni progetto migliaia di fotografie e di ore di ripresa e registrazione. Come in «Chang’an Boulevard», un’opera, spiegano alla galleria Continua, «che racconta la vita di una città in continua trasformazione e della gente che vi abita. A bordo di un Van, munito di videocamera, per un intero inverno Ai Weiwei percorre ogni strada del IV, III e II anello, incluso Chang’an Boulevard, il lunghissimo “Viale della Pace Eterna” che, partendo dalle zone e dai villaggi rurali, attraversa il centro della capitale (...), per giungere, infine, alla Fabbrica del ferro (considerata in passato il simbolo dell’industria socialista)».
Per vedere il documentario ci vogliono 10 ore e 13 minuti. Mai quante le 150 ore richieste dal primo video del trittico «Beijing», girato nel 2003. Per vedere «Human Flow» (2017), risultato di un viaggio dell’artista attraverso una quarantina di campi profughi e 23 Paesi, bastano invece due ore e venti minuti. Ma non perdiamo di vista l’architettura, terreno assai più insidioso di quello artistico o cinematografico. Come dimostra il Progetto Ordos 100, da lui promosso in Mongolia e mirato alla costruzione di 100 ville ideate da altrettanti architetti incaricati di disegnare spazi abitativi da 1.000 mq ciascuno.
Il progetto ha subito il pesantissimo attacco di Austin Williams, studioso di architettura cinese contemporanea. A proposito delle critiche alle «pretese urbane della Cina, un Paese che è passato dal 20% della popolazione che viveva nelle aree urbane nel 1978 a oltre il 50% di quella attuale» e alle «città fantasma» sorte nell’ambito di questo piano di sviluppo, Williams (docente alla Kingston School of Art e, va detto, già ricercatore della XJTLU University di Suzhou in Cina) rintuzza gli attacchi dei media occidentali invitandoli a concentrarsi su quelli che ritiene i veri fallimenti.
Come, ad esempio, «il tanto decantato progetto Ordos 100 (...). Ideato dal ricco dissidente amato da tutti, Ai Weiwei (...). Il suo lancio e le sue proposte sono state seguite dalla maggior parte delle riviste di architettura; la sua fine, meno. In effetti, può sorprendere che questo progetto sia ormai morto. Un attraente museo d’arte di DnA Architects è l'unico progetto completato che si trova senza visitatori in un vasto deserto. Delle altre 99 proposte di progetto approvate nel 2005-06, nessuna è stata completata. Solo cinque gusci di edifici giacciono abbandonati sotto il sole del deserto: di dimensioni inaudite (e intendo dire “enormi”), sono stati lasciati a riempirsi di sabbia trasportata dal vento. Di questo scandaloso spreco di tempo, denaro e fatica si parla poco. È come se la vendita di un cucciolo da parte di un’azienda chiamata “Fake Design" fosse troppo imbarazzante da sopportare» («The Architectural Review», 23 settembre 2013).
Tutto ciò, probabilmente, non è sufficiente a smuovere il suo ammiratore Hans Ulrich Obrist dalla convinzione che questo artista, che di fatto ha «realizzato molti più edifici di tanti architetti europei della sua generazione, che spesso passano la vita a cercare di costruire qualcosa», è un uomo che «per la vastità dei suoi interessi» gli ricorda «i grandi artisti rinascimentali».
Numeri ad effetto
Così come nella sua attività di regista, documentarista e videoartista Ai Weiwei accumula immani quantità di materiale, come artista manifesta la stessa ossessione a partire dalla metà degli anni Novanta. Il suo stile della prima maturità è scandito dai grandi accumuli e dai grandi numeri, a partire dai 3.600 utensili di epoca neolitica di «Still Life» (1993-2000).
32.400 gocce di cristallo compongono «Fountain of Light», la ricostruzione su oltre 4 metri di altezza del «Monumento alla III Internazionale» come lanterna cinese galleggiante commissionata dal Louvre Abu Dhabi nel 2016 e prima, nel 2007, dalla Tate Liverpool; 150 tonnellate di tondini d’acciaio arrugginiti, recuperati dalle macerie, sono affastellati a terra a simulare un’onda sismica per commemorare la tragedia di Sichuan («Straight», 2008-12), cui sono riferiti anche i 360 zainetti scolastici che cuciti insieme formano il serpentone in memoria dei ragazzi morti in quel disastro (ma a Monaco, in un’installazione sulla facciata della Kunsthaus, gli zainetti erano 9mila).
10mila beccucci di teiere antiche sono il materiale di «Spouts» (2015). 1.500 granchi in porcellana ricordano invece un party celebrato il 7 novembre 2010: si trattava di festeggiare il termine dei lavori e l’immediata distruzione di uno studio di Ai Weiwei a Shanghai, dov’era stato invitato dalle stesse autorità che poi, una volta ultimato l’edificio, ne ordinarono la demolizione perché non a norma («granchio» nella cultura cinese indica armonia, ma nello slang del web vale anche per censura); 100 milioni di semi di girasole di porcellana dipinti a mano, uno in maniera diversa dall’altro (i cinesi sembrano tutti uguali a noi occidentali, ma non è così), da 1.600 artigiani di Jingdexhen nel sud della Cina (il seme di girasole è parte importante dell’alimentazione cinese), vennero sparsi nell’ottobre del 2010 sul pavimento della Turbine Hall della Tate Modern di Londra.
Un’installazione costruita con le ruote di 3.144 biciclette (omaggio alla ruota di Duchamp, ma anche al veicolo più diffuso in Cina) sono saldate insieme e installate nel 2013 a Toronto (esistono versioni della stessa opera numericamente più limitate, infatti a Palazzo Strozzi erano soltanto 950).
Willy Wonka a documenta
Quando si pensa alla Cina, l’immensità di quel Paese, le città-formicaio e il quasi miliardo e mezzo di abitanti evocano del resto numeri da capogiro. A scherzare con le iperboli, però, si rischia il ridicolo. Ad esempio: se una persona avesse la possibilità di offrire un viaggio premio in Europa a 1.001 cinesi forse non penserebbe come destinazione a Kassel. Invece Ai Weiwei nel 2012 se li è portati (o deportati) a documenta, previa selezione, come certi capi ufficio di Fantozzi che regolarmente impongono agli inermi sottoposti durissime gare ciclistiche o maratone cinematografiche d’essai. Così, per un paio di mesi, si è trasformato nel Willy Wonka dell’arte contemporanea, solo che ad attendere i premiati non c’era esattamente una fabbrica di cioccolato.
Dai grandi numeri Ai Weiwei è recentemente passato al «far grande», destino di tutti gli artisti ricchi, famosi e affermati e magari non più giovanissimi ma non ancora ufficialmente pensionati, come lui che ora vive in Portogallo, che pure dei pensionati è un paradiso. Oggi è uno di quegli artisti-monumento che partecipano come guest star alle Biennali di Venezia, nell’ambito degli eventi collaterali. In queste occasioni il rischio di apparire come ghost star è sempre incombente.
È molto «ghost» anche il soggetto scelto per la (ovviamente) gigantesca opera esposta alla Basilica di San Giorgio Maggiore, una scultura sospesa composta da oltre 2mila pezzi di vetro nero lavorati a mano nei laboratori di Berengo Studio a Murano. Larga oltre sei metri e alta nove, è un memento mori composto da ossa, organi e altri reperti umani e non. Un’immane, terrificante ombra cinese che non sfigurerebbe nel circo di Damien Hirst. Ai Weiwei espone a Venezia in contemporanea ad Anselm Kiefer, un artista che alla denuncia sociale e politica ha sempre preferito la «discesa alle madri» nella storia tedesca.
Una coincidenza che induce a una riflessione: ci voleva più coraggio nel 1969 a fotografarsi, come Kiefer, in studio e in diversi Paesi politicamente «sensibili» o con un passato imperialista imitando il saluto nazista o ce n’è voluto di più, tra il 1995 e il 2011, nella serie «Study of Perspective» per fotografare il proprio dito medio alzato verso la Basilica di San Marco, Monna Lisa, l’Opera House di Sydney e altri luoghi simbolo, tra i quali ovviamente piazza Tienamen come ha fatto il suo collega cinese?
Di sicuro nel 1969 l’arte aveva un potere provocatorio (magari anche in chiave autopromozionale) forse più pungente, ma il cui effetto mediatico non era minimamente paragonabile a quello raggiungibile con i mezzi attuali e per di più in un’epoca in cui l’arte contemporanea è essa stessa un fenomeno mediatico. Il «fottiti digitale» (nel senso di detto con un dito) è ormai un’iconografia costante del contemporaneo, che sia monumentale come quello eretto da Cattelan di fronte alla Borsa di Milano amputando le altre dita di una mano irrigidita nel saluto romano, o estemporaneo come quello con cui la folla festante saluta l’Imperatore nella «Turandot» messa in scena quest’anno da Ai Weiwei all’Opera di Roma.
Forever selfie
Sebbene Bonami abbia ironizzato sulle reali condizioni di prigionia di Ai Weiwei quando il suo arresto lo proiettò sulle prime pagine di tutti i giornali, il più famoso dissidente cinese le botte le ha prese per davvero almeno una volta, nel 2009. La polizia lo malmenò in una stanza d’albergo a Chengdu per impedirgli di deporre a favore di Tan Zuoren, l’ambientalista finito sotto processo per avere diffuso la notizia dei 5mila bambini morti nel terremoto di Sichuan.
Le immagini della risonanza magnetica che rivelò l’emorragia cerebrale riportata in quel pestaggio dall’artista divennero, manco a dirlo, un’opera. Un perfetto uso politico di quella «tendenza a svelare i segreti personali» che Ai confessava anni fa a Obrist; e che oggi si traduce in un'evidente dipendenza da Instagram, su cui l’artista posta instancabilmente un ossessivo diario per immagini, comprensivo il parto di una delle sue gatte e il rito della rasatura. Nonostante la già citata autospoliazione dichiarata nel 2011, nello stesso anno in cui la rivista «Artnet» lo piazzava al primo posto nel «Power 100» dell’arte, Ai Weiwei continua a somigliare molto più a un artista che a un attivista.
«È una questione filosofica, ha spiegato recentemente in un’intervista a “El País” presentando la sua biografia, 1.000 anni di gioie e di dolori e aggiustando un po’ il tiro con quella straordinaria abilità di manipolare le carte in tavola che tutti gli riconoscono, da Las Vegas a New York (Mary Boone Gallery). Ogni individuo è politico, se vive all’interno della società. Questo è vero anche per l’ambiente dell’arte: bisogna pensare a ciò che si vuole esprimere, a come esprimerlo e a chi si desidera vendere la propria arte. È un processo politico in ogni sua fase. Chi dice il contrario mente. La maggior parte delle mie opere è una dichiarazione politica esplicita e ne sono fiero. Non mi interessa sapere se la gente mi considera o meno un artista».
Quando gli si fa notare che le sue opere hanno raggiunto in asta i 5 milioni di sterline, spiega che però «rispetto ai grandi artisti contemporanei sul mercato dell’arte vendo molte poche opere. Sono molto più popolare presso il grande pubblico. La gente mi ama perché con la mia arte do voce all’umanità, ne racconto gioie e dolori. Non sarei capace di dipingere una tela astratta di cui non si capisce quale sia il sopra e il sotto e farmi pagare milioni di dollari. Lo trovo discutibile».
L’imperatore della dissidenza
Il sorridente gattone cinese nasconde forse la consapevolezza che dichiararsi attivista e basta non è molto credibile quando hai un figlio che studia a Cambridge, una bella casa a cento chilometri da Lisbona e tra un post e l’altro su Instagram sei impegnato nella realizzazione di opere sempre più monumentali e costose.
Ad esempio «Pequi Tree» (2021), un albero in ferro di 32 metri collocato nel Parque de Serralves, un’opera concepita per denunciare la deforestazione in Brasile sotto la presidenza Bolsonaro. L’artista e le gallerie che lo hanno supportato, la Lisson di Londra e la neugerriemschneider di Berlino, spiegano che questa impresa (molto à la Penone a dire il vero) ha coinvolto un bel po’ di lavoratori in Brasile, in Cina, dov’è stata fusa, e in Portogallo, dov’è stata assemblata.
Privo della caratura teorica di Hito Steyerl o dello stesso Theaster Gates, Ai oggi è al 39mo posto di una «Power 100» piena zeppa di pensatori, filosofi e sociologi che di teoria politica ne masticano molta più di lui. Ancorato all’intramontabile modello comportamentale warholiano declinato sul protagonismo performativo di Marina Abramovic, Ai Weiwei sta sempre più faticando a imporsi come autentico ed efficace attivista; sul lato pratico, è ampiamente superato da un mondo dell’arte in cui l’interdisciplinarità non è più limitata a ciò che attiene alla costruzione di immagini o di azioni performative (che siano le immagini sculture o installazioni, film, video, opere teatrali eccetera), ma fa convergere, in una piattaforma collettiva, altri ambiti di ricerca, vivendo costantemente su contributi e competenze extrasettoriali, come si è visto quest’anno a Kassel, dove dominavano i collettivi «trasversali» e multidisciplinari e non gli artisti, essendo la compenetrazione di più scienze e competenze (quelle artistiche incluse, beninteso) uno dei pochi modi per fare politica attiva e reale attraverso l’arte e le sue strutture.
Così il critico di arnet.com Alex Greenberger ha descritto l’impasse dell’«artivista» cinese: «La sua retrospettiva all’Albertina di Vienna (conclusasi lo scorso 22 settembre) è piena di opere con messaggi politici urgenti che devono essere ascoltati. Ma le proteste di Ai sono spesso gridate così forte da richiamare l'attenzione più su di sé che sui temi che cerca di sensibilizzare».
Il fatto è che di tutte le azioni e opere che ha realizzato per protestare contro i soprusi, le guerre, le violazioni dei diritti umani, la distruzione dell’ambiente eccetera, ciò che rimane impresso nella memoria del visitatore è soprattutto il suo faccione e un fisico che non giova all’immagine di un artista sofferente, che sia impegnato nell’immedesimazione di un naufrago aggrappato a una zattera o nel tentativo di mangiare e contemporaneamente essere mangiato in «Mutuophagia» (2018), una fotografia in cui appare, nudo e disteso in posizione fetale su un letto di frutta tropicale (l’opera faceva parte della mostra del 2021-22 al Museu Serralves di Porto, dedicata alle devastazioni ambientali in Brasile).
Così, più che un feroce attivista, Ai Weiwei si è trasformato in un estetizzante simbolo dell’attivismo nell’arte. Il personaggio perfetto, quest’anno, per la Japan Art Association che, assegnando il Praemium Imperiale, lo ha abbinato al suo perfetto contrario, Giulio Paolini, mettendosi al riparo dalle accuse che sarebbero piovute nel momento in cui il «Nobel dell’arte» è stato conferito anche a un artista che, come Morandi, pure sotto le bombe continua a fare il suo mestiere e a essere ciò che è.
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Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore
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