Coetanei (nati ambedue nel 1928), conterranei (entrambi nati e cresciuti a Nizza), accomunati dalla passione e dalla pratica del judo, Yves Klein e Arman hanno percorso affiancati un lungo tratto della loro gioventù, uniti da una solida amicizia. Protagonisti entrambi del Nouveau Réalisme, i due artisti partivano però da premesse differenti e tendevano a mete molto diverse: il primo, impegnato a inseguire un’immaterialità di segno spirituale e cosmico in cui giocavano un grande ruolo il pensiero orientale e la filosofia zen; il secondo, all’opposto, teso a indagare la pervasività dell’«oggetto» nella società dei consumi: una società, commentava, che «in circa mezzo secolo ha prodotto più oggetti che nei cinquantamila anni precedenti». Intorno ai trent’anni, poi, entrambi esposero nella galleria parigina di Iris Clert: Klein nel 1958, nella personale «Le Vide», in cui lo spazio della galleria era completamente vuoto; Arman nel 1960, nella mostra «Le Plein», dove tutto, persino lo studio della gallerista (un po’ indispettita, all’inizio), era invaso da oggetti ammaccati, vecchi mobili, detriti. In una parola, spazzatura.
«Yves Klein e Arman. Le Vide et Le Plein» è il titolo della mostra, del tutto inedita, curata da Bruno Corà e allestita su progetto di Mario Botta, che la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati presenta a Lugano dal 22 settembre al 12 gennaio 2025 (il catalogo, bilingue, è di Mousse Publishing): «Attenzione però, avverte Bruno Corà, non si tratta di una rievocazione di quelle due mostre: non solo non sarebbe possibile ma, più ancora, non sarebbe corretto, trattandosi di un’operazione consentita ai soli artisti. Insieme a Danna Olgiati e a Mario Botta abbiamo perciò concepito le loro due personali di oggi come una presentazione di opere “in compresenza”. Non un confronto ma, appunto, una compresenza di lavori che si fronteggiano in un vis-à-vis».
Le 60 opere in mostra (30 dell’uno e 30 dell’altro, dal 1954 agli anni ’60, il decennio in cui Klein muore precocemente, nel 1962) sono infatti esposte negli spazi poligonali che Mario Botta ha ideato, come fossero cappelle che si aprono, opposte, ai lati di una lunga navata, presentando ognuna un periodo del lavoro di ogni artista: di Klein i «Monochromes» del 1955-59, le «Anthropométries» del 1960 (le impronte di corpi di modelle cosparse di quel «blu Klein» che brevettò, che erano per lui «tracce di vita»), le «Cosmogonies» e cinque esempi di «Peintures de Feu» (1961-62), realizzate su cartone con pigmento puro e resina sintetica bruciati, oltre alle spugne blu e all’«Excavatrice de l’espace», da lui realizzata con Jean Tinguely; di Arman, i cicli di lavori basati sull’accumulazione di segni (i «Cachets») o di oggetti prelevati dalla realtà i quali, spiega il curatore, «scatenano l’emotività e l’aggressività dell’artista, ben manifesta nelle “Colères” (le collere, ossia oggetti distrutti dall’artista e ricomposti su tavola, Ndr) e nelle “Poubelles” (spazzatura inscatolata in teche di plexiglas, Ndr)», fino a «Les ailes jaunes. Accumulation Renault n. 105» (1967), magnifico esempio delle sue «Accumulations». Cui si aggiungono gli «omaggi» che i due artisti si resero attraverso reciproci ritratti. «Yves Klein e Arman incarnano il duplice Zeitgeist di un’epoca, chiosa Corà: il primo aduso a praticare il sacro, il secondo immerso negli oggetti soverchi della nostra civiltà, i due artisti sono presentati qui per la prima volta in un percorso che evidenzia, in un dialogo frontale, due aspetti antitetici ma complementari della loro poetica».