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La formula giusta l’ha trovata Mario Botta: è «una complicità negativa» quella che ancora oggi lega Yves Klein e Arman (al secolo Armand-Pierre Fernandez), nati entrambi a Nizza nel 1928 ma morti a distanza di più di quarant’anni (il primo nel 1962, il secondo nel 2005). A siglare la loro complicità, indissolubile proprio perché rovesciata a chiasmo, fu Iris Clert che nella sua piccola galleria parigina, il 28 aprile 1958, ospitò «La spécialisation de la sensibilité à l’état matière première en sensibilité picturale stabilisée». Cioè quella passata alla storia come «Le Vide»: la galleria era perfettamente vuota, appunto; ma al suo interno per due giorni s’era barricato Klein per «impregnarla» della sua «sensibilità». Annota lui che «spesso le persone restano dentro per ore senza dire una parola, e alcuni tremano o cominciano a piangere» (per tenere a bada i quasi 3mila curiosi accorsi a rue des Beaux-Arts devono intervenire la Guardia Repubblicana e i vigili del fuoco). Uno dei visitatori lo apostrofa: «Ci tornerò quando questo vuoto sarà pieno», e lui: «Quando sarà pieno, non sarà in grado d’entrare». Ecco dunque già ideata la seconda mostra, con la quale si compirà la complicità negativa dei gemelli diversi: «Le Plein» di Arman s’inaugura nello stesso spazio il 25 ottobre 1960, e consisterà, perfettamente a rovescio dell’altra, dell’accumulazione d’una massa di oggetti eterogenei trovati ai mercati delle Halles. Come profetizzato da Klein, all’opening (si fa per dire) di Arman non può entrare nessuno, con la galleria per intero riempita di «roba».
Vuole la rispettiva mitobiografia che, conosciutisi diciannovenni a scuola di judo, Klein, Arman e il poeta Claude Pascal, dopo aver tentato invano di raccapezzarsi nella Cosmogonia dei Rosacroce di Max Heindel, trovata da Yves chissà dove, un pomeriggio, sdraiati in spiaggia si spartiscono l’universo nella tripartizione sancita dal libro: Arman si aggiudica il regno animale, Claude quello vegetale, e Yves il cielo (nel suo testamento nominerà sempre Arman e Pascal eredi dello «spazio immateriale» col diritto a usare l’Ikb, cioè il Blu Klein da lui brevettato; e aveva pensato a un calco del corpo anche di Pascal per i suoi «Portraits reliefs» in blu e oro: ma completò solo quello di Arman ora esposto all’ingresso della mostra di Lugano).
È l’uovo di Colombo, insomma, la bella mostra curata da Bruno Corà nella storica galleria di Giancarlo e Danna Olgiati (entrambi legati a filo doppio a questa storia: lui s’innamorò dell’arte contemporanea alla galleria Schmela di Düsseldorf, dove nel ’62 s’imbatté nelle «Cosmogonies» e nelle «Peintures de Feu» di Klein; lei avrebbe dovuto ospitare nella sua galleria Fonte d’Abisso l’ultima mostra di Pierre Restany, il critico d’elezione dei Nouveaux Réalistes, prima della sua morte improvvisa nel 2003): che finalmente riunisce i due nel nome delle mostre parigine che li gemellarono una volta per sempre. Essendo quei due appuntamenti «irripetibili a causa dell’azione dal vivo dei loro autori» (Corà), si sono documentate le attività in parallelo dei due, seguendo Arman sino alla fine degli anni Sessanta con le «Accumulations» nelle quali s’incarnano il suo materialismo assoluto e l’ossessione per il pieno, contrapposti allo spiritualismo e all’estasi del vuoto dell’amico Yves. In mostra troviamo così, di quest’ultimo, i primi e rarissimi «Monocromi», le scandalose «Anthropométries» del ’60, con impressi sulla tela i corpi delle modelle coperti di blu (furono queste a venire parodiate al cinema da Claude Chabrol e Gualtiero Iacopetti: sono in molti a pensare che fu proprio la collera dopo aver visto «Mondo cane», al Festival di Cannes del ’62, a provocargli la serie di infarti che, a soli 34 anni, gli furono fatali), e le eccezionali «Spugne» e «Cosmogonie», nelle quali sono gli agenti atmosferici a impregnare le opere di colore.
Per esprimere la religiosità di Klein, Mario Botta ha concepito un allestimento suddiviso in dieci «cappelle absidali». L’effetto, suggestivo, non so quanto consapevolmente realizza uno dei tanti progetti visionari accarezzati da Klein nei suoi ultimi appunti: quello di comporre una Via Crucis di 14 «Monocromi Blu» raccolti in una cappella tutta bianca. Con l’intensità di queste superfici possono gareggiare solo quelle di Mark Rothko, che le avevano precedute di qualche anno. Nel ’61 s’erano anche conosciuti, il francese d’origine tedesca e giavanese, e l’americano nato in Lettonia: alla personale di Klein voluta da Leo Castelli a New York. Ma non si erano piaciuti. Chissà però se Rothko aveva sentito parlare della Via Crucis sognata da Klein, quando due anni dopo la sua morte concepì, in 14 «Monocromi Neri», lo spazio per John e Dominique de Menil che, come Klein la sua, non poté vedere realizzato (si ammazzò nel ’70, un anno prima dell’inaugurazione): cioè la Rothko Chapel di Houston, oggi tornata invisibile per i danni procurati dall’uragano Beryl lo scorso luglio. Una nemesi che strapperà forse un ultimo sorriso, al profeta dell’Immateriale dell’Arte, su qualche nuvoletta azzurra.