47 Fotos è un piccolo libricino tascabile (misura appena 12x16 cm) che inaugura la nuova collana di Corraini Edizioni «I Quaderni di Spazio Munari». Alla base di questo progetto c’è la volontà di innescare letture originali del lavoro seminale di Bruno Munari, coinvolgendo artisti e intellettuali internazionali per sottolineare la rilevanza che il designer italiano ha avuto nel formare intere generazioni e importanti discorsi sulla cultura visiva. Il primo ad avventurarsi in questa impresa è Jason Fulford, affermato fotografo americano, che da Bruno Munari sembra aver ereditato molte cose.
Prima di tutto, Fulford non è solo un fotografo, ma anche un designer ed editore (ha fondato nel 2000 la J&L Books insieme a Leanne Shapton). In secondo luogo, il suo approccio stilistico è riconoscibile per la capacità di ragionare per immagini e accostamenti visivi che arrivano alle persone in maniera immediata, spesso ironica, ma mai superficiale. Proprio come faceva Munari. I due, però, non si incontrarono mai. Lo fanno ora in questa nuova pubblicazione (lanciata in occasione della mostra «Fotochiacchierata» che fino al 9 novembre è visitabile nello Spazio Munari) dove il flusso di immagini affiancate dà vita a un dialogo visuale tra i due artisti. Quella inscenata tra le pagine di 47 Fotos è una conversazione «a suon di immagini» che ci mostra come la leggerezza sia fondamentale per riflettere sul ruolo della fotografia nella nostra epoca.
Abbiamo intervistato Jason Fulford per saperne di più.
Ci può raccontare com'è nato questo progetto?
Con Pietro Corraini ci incontriamo ogni anno alla New York Art Book Fair. Nel 2022, mentre stavamo parlando, mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto fare qualcosa su Munari e la fotografia. Munari è un eroe per me. Ho tutti i suoi libri e il suo lavoro ha influenzato il mio modo di fare fotografia e di vedere il mondo. Quando Corraini mi ha detto di aver trovato immagini inedite di Munari, ho iniziato a farne una selezione e, in seguito, ho aggiunto alcune mie fotografie per creare un dialogo visivo tra noi due.
Qual è stato il suo primo incontro con Munari, se lo ricorda?
Lo ricordo bene. Era una pubblicazione di Lars Muller, intitolata Air Made Visible, un libro incredibile. Quando io e mia moglie, Tamara, abbiamo trovato questo libro, ci siamo chiesti: «Chi mai è questa persona?». Da lì è nata una grande passione per le pubblicazioni di Munari. La sua produzione editoriale è molto importante perché ha permesso di fissare le sue idee sulla carta, in modo che potessero essere tramandate alle generazioni future. Mi piace il suo modo di scrivere, è molto aperto, condivide con le persone le cose che conosce. Non è un artista che vuole proteggere ciò che ha fatto.
Come ha lavorato alla sequenza delle fotografie?
Quando lavoro a una sequenza di immagini per un libro, di solito stampo piccole fotografie e le ritaglio, poi le mischio sul pavimento e inizio a giocare. In questo libro le immagini sono 47 (da qui il titolo), perché amo i numeri primi e perché era il numero preferito di un mio amico che purtroppo non c’è più. Un altro numero che amo è il 33, quindi ho scelto di inserire 33 immagini di Munari, mentre le restanti 14 sono mie. La gerarchia doveva essere: prima viene Munari e poi io. Lo si vede anche nella mostra. Le stampe originali di Munari sono piccole, degli anni ’30, ’40 e ’50. Non volevo che le mie fotografie più grandi sovrastassero le stampe piccole, così abbiamo ingrandito alcune immagini di Munari a grandezza naturale sulle pareti.
Spesso lei è sia il fotografo che il designer dei suoi libri, e così è stato anche in questo caso.
Sì, penso al design come a un contenuto, tanto quanto alle fotografie e ai testi. Per 47 Fotos ho collaborato con Giulia Pastore dello studio Corraini e questo sarà il modello che verrà utilizzato per i prossimi libri della collana Quaderni di Spazio Munari.
Ha scoperto qualcosa di nuovo su Munari lavorando a questo progetto?
Ho imparato che spesso lavorava con altri fotografi e che molte delle immagini che associamo a lui non le ha realizzate lui stesso. Spesso non è chiaro come sia nata l’idea dello scatto, quanto sia rappresentativa di Munari o del fotografo. In ogni caso, credo che per la maggior parte queste immagini siano una traccia dello spirito di Munari, presente in tutto ciò che faceva. Inoltre, ho scoperto che gli piaceva travestirsi e giocare davanti alla macchina fotografica; ci sono molti ritratti di lui in costume. Suo nipote mi ha detto che Munari non stava mai fermo. Quando erano in vacanza al mare, non si sdraiava a prendere il sole, ma camminava sempre e raccoglieva sassi e conchiglie, giocava con i bambini... Ho avuto modo di ascoltare diversi aneddoti su di lui proprio dalla sua famiglia.
Lei è spesso a Milano, è una città speciale per lei?
Amo Milano, sono stata invitato per la prima volta da Giulia Zorzi di Micamera, che ora è quasi una famiglia per me. Vicino alla libreria c’è il Cimitero Monumentale. Io e mia moglie visitiamo spesso la tomba di Munari. Lungo il percorso raccogliamo erbacce e scarti con i quali realizziamo un piccolo bouquet che mettiamo nel vaso accanto alla tomba. Penso spesso a lui quando sono in quella città.
Questo progetto ci mostra come il mondo del design e della comunicazione possano essere un’importante risorsa di ispirazione per la fotografia. Cosa ne pensa?
Troppo spesso il mondo della fotografia si isola, e questo è un male per la fotografia stessa. Un aneddoto emblematico a questo proposito: quando ero all’università, dove studiavo sia grafica che fotografia, avevo un insegnante di grafica che ci dava un compito che mi piaceva molto. Una volta al mese ci dava un necrologio del «New York Times» con il compito di «creare un logo che rappresentasse il defunto». Il logo doveva essere in bianco e nero e doveva essere leggibile, sia in piccole che in grandi dimensioni. E doveva, ovviamente, rappresentare la totalità della persona nella sua complessità. Questo esercizio mi ha insegnato a condensare qualcosa di molto complicato in una forma semplice. Oggi mi trovo ad applicare questo tipo di pensiero alla creazione di immagini. Voglio che le mie fotografie abbiano un punto di ingresso semplice e poi, quando ci si avvicina, diventino più complesse. Non si tratta di una semplicità superficiale, ma di una semplicità «esatta».