«Rain in your black eyes» è il titolo della nuova installazione pensata e realizzata da David Tremlett per la cappella della Chiesa della Sacra Famiglia di Dogliani. L’artista britannico (Saint Austell, 1945) noto per i wall drawing sparsi in tutto il mondo, ha inaugurato qualche giorno fa, il 9 settembre, la sua opera in occasione di una rassegna promossa dalla galleria Lunetta11 di Mombarcaro, nel cuneese, alla presenza di tanti collezionisti ed estimatori, e ha risposto in esclusiva a «Il Giornale dell’Arte» a qualche domanda.
La sua opera, «Rain in your black eyes», è una sorta di «requiem laico» per un amico. Entrando nelle chiese abbiamo l’idea di aspettarci il silenzio, ma non è mai stato così. Per moltissimo tempo le chiese sono state crocevia quotidiani di rumori, di canti, di persone, di complotti, e soprattutto di arte. Sono state il primo pretesto delle persone per avvicinarsi ad essa, anche se non si andava per vedere l’immagine della Madonna o di un santo ma per vedere la Madonna stessa e i santi. Quest’opera dedicata al suo amico Ezio Bosso, compianto compositore e direttore d’orchestra, non è allora solo un ricordo ma è la testimonianza della sua presenza, seppure incorporea, lì. La gente «lo troverà» ...
Ha ragione. Non è in sua memoria, questo per me sarebbe troppo sentimentale. Riguarda una celebrazione, è un modo per dire «ciao»! Lui adesso non può essere qui, ma è come portare avanti una conversazione con lui. È una celebrazione del fatto che è esistito e soprattutto che il suo lavoro esisterà̀ per sempre e, di conseguenza, anche lui in quanto creativo. Il suo corpo fisico, come anche il mio, non esisterà̀ per sempre. E penso che questi piccoli gesti di amore, di ammirazione e di amicizia siano il modo in cui ancora oggi possiamo instaurare un dialogo profondo. Io sono vivo e lui è morto, ma nonostante ciò possiamo incontrarci. Quello che faccio lì dentro è un dialogo con lui, senza le parole ma comunque comunicando una partecipazione.
Lei dice che le sue impronte sull’opera si mescoleranno a quelle di Bosso. È una visione molto poetica, la manualità che accomuna tangibilmente arte e musica. Le nostre impronte sono uniche, ma all’occhio sono indistinguibili mentre la tecnologia moderna permette di riconoscerle e identificarle ricavando poi tutte le informazioni sulle singole persone. Non trova che sia una sorta di cortocircuito?
Le dita di Ezio erano capaci di suonare il violino, il basso, il piano eccetera, e di dirigere l’orchestra. Quando parlava usava sempre le mani. Tutti i gesti che faceva con le mani, suonando o dirigendo, erano segnali che animavano la musica. La memoria di Ezio è fondamentalmente quello che rimane nelle orecchie, e quello che ha lasciato nella scrittura e nelle registrazioni. ovviamente. C’era lui. Quelle erano le sue mani. Le mie, invece, hanno sempre fatto delle cose come i wall drawing o i disegni su carta, e quindi usare le impronte e le dita, con queste movenze randomiche e caotiche, è molto simile al modo in cui Ezio avrebbe mosso le sue mani verso il pubblico, o suonando il piano. È questo equilibro che ricerco qui: io sono l’artista che fa oggetti, lui è l’artista che fa musica. Ed entrambi usiamo le mani in modi strani.
L’installazione di Dogliani è un’opera temporanea. Non si tratta di una parete, che invece rappresenta all’opposto una struttura portante. Come ha cambiato il suo modo di lavorare, sapendo che l’opera rimarrà lì per un tempo limitato?
Io considero quest’opera una scultura. È come portare all’interno un pezzo di pietra. È tridimensionale, ha una parte superiore, puoi girarci intorno, dunque è una scultura. Non è un wall drawing, non riguarda la struttura dell’edificio, ma è un oggetto in mezzo alla stanza, dunque è scultura. La superficie è un’altra cosa: è strana. L’aspetto della permanenza, quello riguarda davvero il fatto che non c’è un’alternativa, e non ho problemi a questo riguardo. È come fare una mostra in un museo dove preparo un’installazione e ovviamente ogni tot devono cambiare il programma. Ci saranno poi nuove mostre e nuove opere. Fa parte di questo progetto per cui si fa qualcosa per uno scopo.
Il colore nero è una scelta inusuale per lei?
C’è una storia che riguarda il grasso di grafite nero che ho utilizzato. Quando ero molto giovane, dopo essere stato studente all’università, ho iniziato a fare piccole esposizioni ma avevo pochi soldi e quindi lavoravo come meccanico in un’autofficina, in un piccolo garage nella zona sud di Londra, dove riparavano taxi. Essendo uno scultore ero sempre alla ricerca di materiale, come pezzi di metallo, e mi sono imbattuto in questi fusti di grasso nero. Allora non sapevo che cosa ne avrei fatto allora, ma lo trovai molto interessante. In una mostra a Londra, negli anni Sessanta, ho realizzato una sorta di installazione, ho portato un po’ di quel grasso e ho iniziato a spalmarlo sul muro; poi per quasi trent’anni non l’ho mai più utilizzato. Quando qualche anno fa a Grenoble mi è stato chiesto di fare una retrospettiva, ho pensato di ricreare quel lavoro. E l’ho fatto. L’ho cambiato un po’, ma ho sparso di nuovo quel grasso sul muro. E mi sono reso conto, dopo anni che lavoravo, pur sempre con le mani, ma con i pastelli e i colori, che erano materiali opposti: il grasso era umido, puzzava, era repulsivo per le persone, un materiale non «gentile», in un certo senso quasi brutale. Aveva tutte le qualità antitetiche ai pigmenti. Ho trovato questa contraddizione affascinante. E così ho iniziato, in piccole occasioni, a riutilizzarlo. In seguito ho lavorato con un artista francese che progetta luci. Aveva ideato un cerchio di luce sul muro, con un proiettore ad alta densità, e lo aveva poi tagliato a metà, e io avrei poi coperto quel mezzo cerchio rimasto senza luce con il grasso nero. Quindi era mezzo cerchio di luce bianca e mezzo nero. Metà era trasparente e metà era materico. Questo grasso arriva quindi dalla mia gioventù, e ora che invecchio mi piace di tanto in tanto impiegarlo.
Pensando alle sue opere le si colloca immediatamente in una dimensione geografica. Per le Langhe, ad esempio, se banalmente si cercano su internet i centri di Serravalle Langhe, La Morra, Coazzolo, tra le prime immagini appaiono i suoi interventi. L’arte ha saputo conferire ulteriori identità. Come si sente a riguardo?
In un certo senso è stato un «incidente», non l’ho mai voluto. Il mio interesse primario è lo spazio effettivo. Io subentro in qualcosa che è antico, e non ne cambio né l’età né le origini. Aggiungo qualcosa che generalmente ha a che fare con l’architettura: agisco sulle pareti o sul soffitto, provo a modificare leggermente lo spazio con il colore o con il tipo di forme che scelgo di usare. Quando entri in uno di questi luoghi con all’interno un mio lavoro hai la percezione di trovare qualcosa di nuovo, ma è un’idea di passato e di futuro che in un certo senso si mescolano. Io penso che questi lavori abbiano valore solo dal momento che esistono in un paesaggio, o in un particolare ambiente, il che vuol dire che sono le persone che li guardano a caricarli di significato. Una determinata opera esiste perché esiste in un territorio, in un paese o in una città. Diventa parte della vita.
Secondo lei come si relazionerà la sua arte con il futuro?
Nessuno può prevedere il futuro, io vivo nel presente. La speranza maggiore è che questi lavori siano conservati e all’occorrenza riparati. Sarà importante prendersi cura di queste cappelle, e spero che fra cent’anni saranno in buone condizioni. Dipenderà tutto dalle persone.
Se penso alle sue architetture, mi vengono in mente alcuni pittori del Trecento e Quattrocento, come Giotto, Maso di Banco, Simone Martini ma anche Beato Angelico. C’è qualche artista o opera prima del Novecento a cui guarda con attenzione?
Tutti quelli che ha menzionato! Ogni volta che sono in Italia cerco qualcosa. Di recente in un museo di Perugia ho scoperto un Piero della Francesca che non avevo mai visto prima. Cerco sempre di trovare questi esempi. La mia libreria in termini visivi, e in termini di arte, spazia tra i maestri italiani del Rinascimento ma reca anche i frutti del tempo trascorso in Vietnam, in America del Sud e in Australia. Ho guardato all’arte aborigena e africana, sono molto curioso di questi mondi che mi hanno influenzato soprattutto per quanto riguarda il colore, come nella semplicità̀ dell’utilizzo di alcuni pigmenti sulle pareti.
Vorrei salutarla con una frase di Ezio Bosso: «Questi sono i giorni per giocare a immaginare il domani. [...] E dovremo immaginarlo migliore. Per costruirlo. Perchè domani non dovremo ricostruire. Ma costruire e costruendo sognare. Perché rinascere vuole dire costruire».
Niente male, bravo Ezio!