In occasione del centenario della nascita, il Mart di Rovereto dedica una mostra ad Armando Testa (Torino, 1917-92), il più celebre e amato pubblicitario italiano del XX secolo. Dal 22 luglio al 15 ottobre, la rassegna «Tutti gli “ismi” di Armando Testa» (catalogo Electa), a cura di Gianfranco Maraniello con Gemma De Angelis Testa, in un allestimento che include 150 opere tra estratti di interviste e filmati di repertorio, sculture, manifesti, video, fotografie, pubblicità, spot televisivi, bozzetti, quadri e installazioni, testimonia il dialogo tra uno dei maggiori comunicatori italiani e il panorama culturale a lui contemporaneo, soffermandosi sulle influenze dei grandi maestri dell’arte moderna internazionale. Il brano che segue è tratto dal saggio «Pensare per oggetti, oggetti per pensare, ovvero l’arte di Armando Testa» di Vincenzo de Bellis, pubblicato nel libro Armando Testa. La sintesi è meravigliosa, a cura di Gemma De Angelis Testa, appena edito da Allemandi.
(...) Io ero tra i tanti che conoscevano superficialmente il lavoro di Armando Testa. Ne ammiravo la qualità intrinseca dell’immaginazione, della creatività. Tutte parole che normalmente, noi, snob dell’arte contemporanea, usiamo per definire chi di questo mondo non fa parte. Poi qualche anno fa il lungo e approfondito dialogo con sua moglie Gemma mi ha portato a scoprire quanto ancora di lui non si sa, quanto di lui ancora andrebbe indagato e quanto quello che lui definiva animo «inquieto» sia stata una forza esplosiva che non ha prodotto solo tante e meravigliose immagini a uso pubblicitario, citate ancora oggi a cinquant’anni di distanza, ma anche quanto tante delle sue invenzioni siano state premonitrici di molta arte contemporanea a lui successiva. Per questo ho pensato che se ne dovesse scrivere, che qualcosa andasse ancora esplorata e svelata. Non con gli occhi di chi ha vissuto il suo tempo e che in lui ha visto il guru dell’immagine e della pubblicità, ma con gli occhi di chi ora guarda con grande distanza storica alle sue idee e non le associa necessariamente a quel linguaggio commerciale a cui sono sempre state associate. Questo piccolo contributo parlerà della capacità di Testa di creare e raccontare con gli oggetti, e di quanto quelle immagini che noi abbiamo sempre visto come elementi bidimensionali nascessero spesso con altre finalità, con la qualità tridimensionale dell’oggetto e della scultura. Allo stesso tempo sottolineerà quanto il suo lavoro sia stato, oggi che di immagini ci nutriamo e viviamo costantemente circondati, non fosse altro che per l’enorme quantità di informazioni che la rete ci mette a disposizione, precursore, anticipatore e, scientemente o incoscientemente, in dialogo, laddove non influente, con una serie di artisti che proprio sugli oggetti e sulla loro «vita» e «immagine» hanno basato la loro arte.
(...) 6 marzo 2016, sono a New York di passaggio per Minneapolis, visito il Guggenheim Museum dove si tiene la retrospettiva di Fischli and Weiss «How to Work Better». Tra le varie straordinarie opere incontro a metà percorso il primo progetto collaborativo del duo svizzero: «Sausage Series» (1979). Si tratta di una serie di lavori fotografici che esemplificano in modo perfetto la grande capacità inventiva e l’uso umoristico di materiali e oggetti quotidiani che contraddistingue i due artisti. Ognuna delle foto «documenta» una scena drammatica realizzata con del cibo e altri oggetti di uso comune: della biancheria da letto sgualcita si trasforma in un paesaggio alpino; delle fette di carne in scatola in tappeti a motivi geometrici; oppure ancora due würstel diventano due auto (le cui ruote sono rondelle di carote) che si sono scontrate in una strada stretta fiancheggiata da edifici di cartone ecc. Il motivo del mio interesse nei confronti di questi lavori non risiede soltanto nella loro straordinaria qualità intrinseca e nell’altrettanto importante dato biografico di essere il primo progetto collaborativo di uno dei duo più importanti della recente storia dell’arte, ma anche nel fatto che questa serie ricorda tantissimo tutta quella sperimentazione con il cibo realizzata da Armando Testa, che lo ha accompagnato per gran parte della sua vita e della sua carriera. Testa ha infatti un particolare rapporto giocoso con l’immagine del cibo, che egli trasforma facendolo diventare scherzo e allo stesso tempo metafora visiva. A partire dagli anni Sessanta, quando immagina dei paesaggi realizzati con le caramelle («Perugina, Caramelle Don, Grotte» e «Perugina, Caramelle Don, Piazza Rossa»), per proseguire poi negli anni Settanta, proprio in contemporanea all’opera succitata di Fischli and Weiss, con i lavori delle fette di prosciutto crudo che rappresentano delle montagne («Montagne») o una poltrona («La poltrona»), la mortadella che diventa una busta postale («Invito al party») e una tovaglia da tavola («Tavolo con scarpine»), l’asparago, un mostro che divora la sedotta sprovveduta («Non ti fidar di un bacio a mezzanotte»), una noce diviene un’inquietante bestiaccia («Nocero Umbro»), un uovo fritto un’isola («Isola di Breakfast»).
(...) Lungi dal voler affermare che la somiglianza di approccio faccia assurgere a «opera d’arte» un’immagine che nasce e si sviluppa con altri presupposti, è però sintomatico che la visionarietà di Testa sia stata spesso molto vicina a quella degli artisti visivi e che quel surrealismo del quotidiano, che Fischli and Weiss hanno evidentemente ereditato dall’esperienza dada, fosse stato già ampiamente «digerito» e sviluppato da un artista dell’immagine come Testa, che lo aveva già «sdoganato» al grande pubblico attraverso il linguaggio pubblicitario. In realtà la grande caratteristica di tutta la carriera di Armando Testa è stata quella di andare di pari passo con le opere degli artisti suoi contemporanei, a volte di anticiparli appunto e solo ogni tanto di omaggiarli e seguirli. (...) Il rapporto tra l’oggetto quotidiano e l’opera d’arte potrebbe ricondurre Armando Testa alla sfera della Pop art. Ma se diamo per assodata la nozione di Pop art come movimento che utilizza le immagini della tv, del cinema, della pubblicità, dei prodotti di largo consumo, dei personaggi mediatici, elaborandole con tecniche pittoriche o scultoree, allora possiamo affermare che Testa facesse esattamente l’opposto e che elaborasse e plasmasse la vita di tutti i giorni con i canoni e le caratteristiche tipiche dell’arte a lui contemporanea. Per questo ritengo che ci siano molti più punti di contatto con l’arte successiva, ovvero quella degli anni Novanta e Duemila di artisti come Jeff Koons prima e soprattutto Maurizio Cattelan dopo, artisti che più che ispirarsi ai dettami del pop si rifanno all’esperienza, già citata in precedenza, dada e al relativo inserimento dell’arte nella realtà quotidiana. Con questo spirito nascono tutti i lavori di Testa che negli anni sono diventati immagini iconiche. Un esempio ne è la «Lampadina limone» del 1968, conosciuta come la copertina della rivista «L’ufficio moderno» ma in realtà nata, come già per «Sintesi ’59», come opera scultorea e sintomaticamente in tempi molto precedenti rispetto alla celebre «Capri-Batterie» di Joseph Beuys del 1985, un lavoro distante per contenuto e intenzioni che sono quasi opposte rispetto a quelle di Testa, ma significativamente somigliante dal punto di vista formale.
Lo stesso dicasi per l’autoritratto con la testa nel cestino, sempre presentato come copertina della rivista «L’ufficio moderno» nel 1967 e assimilabile alle tante operazioni sull’autoritratto dello stesso Cattelan che, non a caso, ha sempre visto nella comunicazione commerciale, nel messaggio pubblicitario, un enorme bagaglio dal quale attingere e attraverso il quale re-inventare immagini e messaggi che lo hanno reso uno dei pochi artisti italiani post Arte povera che resteranno nella storia dell’arte. Però agli occhi di una persona della mia generazione, e credo anche di quelle successive, le immagini di Testa trovano anche un sorprendente riscontro con l’arte che attualmente viene prodotta, quella comunemente definita come «post-internet»: un’arte che va oltre il semplice gesto di realizzare opere che esistono solo online, come facevano i «net artist», e utilizza invece gli strumenti digitali per ideare oggetti che esistono nel mondo reale.