Veduta dell’installazione «Harlem Quilt» (1997) di June Clark nella mostra «June Clark: Witness» alla Power Plant Contemporary Art Gallery di Toronto

Foto: Lf Documentation / Laura Findlay. Cortesia dell’artista e della Daniel Faria Gallery

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Veduta dell’installazione «Harlem Quilt» (1997) di June Clark nella mostra «June Clark: Witness» alla Power Plant Contemporary Art Gallery di Toronto

Foto: Lf Documentation / Laura Findlay. Cortesia dell’artista e della Daniel Faria Gallery

Stelle, strisce e tradimenti nelle bandiere di June Clark

L'artista newyorkese, che vive in Canada da più di mezzo secolo, spiega perché sarà sempre legata agli Stati Uniti

June Clark (Harlem, New York, 1941) lasciò gli Stati Uniti nel 1968, nello stesso anno in cui gli studenti che protestavano contro la guerra occupavano la Columbia University e scoppiavano rivolte nelle principali città, tra cui Baltimora, Chicago e Washington, in seguito all’assassinio del leader dei diritti civili Martin Luther King Jr. All’epoca, il marito della Clark voleva sottrarsi al servizio militare e così, nel giro di quarantotto ore, June disse addio alla famiglia e agli amici nel quartiere di Harlem a New York per trovare rifugio in Canada.

Poco dopo il suo arrivo, iniziò a documentare la sua nuova casa attraverso la fotografia, una pratica che imparò da sola perché all’Università di Toronto, dove lavorava in un ufficio amministrativo, alle donne non era consentito l’uso della camera oscura. Negli anni Settanta, Clark fondò insieme a molte altre donne la Women’s Photography Co-operative, utilizzando le camere oscure del seminterrato della Baldwin Street Gallery di Toronto per realizzare i loro lavori e incontrandosi regolarmente per sostenersi a vicenda e organizzare le proprie mostre. Questo spirito di autosufficienza è stato parte integrante della carriera pluridecennale di Clark, considerando soprattutto la lentezza con cui il mondo dell’arte ha accolto il suo lavoro.

Tutto questo è cambiato negli ultimi anni, da quando, nel 2016, le sue opere sono state incluse nella mostra alla Art Gallery of Ontario di Toronto: «Tributes and Tributaries, 1971-89». Un’ulteriore visibilità le è stata data dal suo suo gallerista Daniel Faria che ha iniziato a presentare i suoi lavori di assemblaggio e le sue installazioni alle fiere d’arte internazionali.

Nel 2021 «Harlem Quilt», creata durante una residenza presso lo Studio Museum di New York nel 1996-97, è stata esposta ad Art Basel Miami Beach. L’anno scorso, «Perseverance Suite», una nuova serie che utilizza attrezzi agricoli e domestici come ferri da stiro, mattarelli e pale, è stata esposta a Frieze New York. Quest’estate Clark espone in tre importanti istituzioni a Toronto: l’Art Gallery of Ontario («June Clark: Unrequited Love» fino al 5 gennaio 2025), la Power Plant Contemporary Art Gallery («June Clark: Witness» fino all’11 agosto) e il Museum of Contemporary Art (Moca) Toronto («Greater Toronto Art 2024: Triennial Exhibition» fino al 28 luglio). 

È stata inoltre nominata per il Sobey Art Award 2024, il più alto riconoscimento canadese per gli artisti contemporanei. Il suo lavoro è ora presente nelle collezioni della National Gallery of Canada di Ottawa, del National Museum of African American History and Culture e della National Gallery of Art, entrambi a Washington, e in altri importanti musei.

June Clark a lavoro nel suo studio. Foto: Dean Tomlinson. Cortesia dell’artista e della Daniel Faria Gallery

June Clark, sono stati anni intensi per lei. Come ci si sente a ricevere questo meritato riconoscimento, non solo in Canada, ma anche negli Stati Uniti?
Continuo a fare esattamente quello che ho fatto negli ultimi cinquant’anni: cercare di capire le cose, analizzare le mie emozioni e realizzare opere che rispondono a queste emozioni. Quindi, sì, è sorprendente che all’improvviso la gente dica: «Oh, mi piace» oppure «È davvero commovente». Ma in realtà per me nello studio non è cambiato nulla.

Una volta, parlando della realizzazione di «Harlem Quilt» e del ritorno nel suo vecchio quartiere dopo quasi trent’anni, lei ha detto che nulla era cambiato e tutto era cambiato. Pensa che questo valga anche per il suo lavoro?
Le cose sono cambiate. Ci sono molti, molti più occhi puntati sul mio lavoro e molte più persone che lo commentano. Ma penso che, in termini di ciò che faccio e di come vedo, vado ancora in giro a raccogliere pezzi di metallo arrugginito da terra e cerco di capire come si potranno inserire nelle opere future. Mi guardo intorno e vedo ancora pezzi di ceramica o di utensili domestici che aveva mia nonna e penso: «Probabilmente potrei usarli».

Quando ha iniziato, negli anni Settanta, si occupava soprattutto di fotografia.
Sì, una fotografia documentaristica molto diretta, imparando da sola, in camera oscura, a guardare l’inquadratura e a ottenere esattamente ciò che volevo.

E ha imparato da sola perché all’Università di Toronto le donne non erano ammesse alla camera oscura, il che è sorprendente.
Non ho idea di che cosa pensassero che avremmo fatto lì dentro. E per essere chiari, ho imparato a lavorare con un gruppo di donne; alcune erano più avanti di altre. Ho imparato a vedere e poi, con il loro aiuto, a mettere una nocca in una vaschetta d’acqua per capire se era a 20°, la temperatura ottimale per lo sviluppo chimico.

Sembra che questo tipo di formazione pratica abbia influenzato il resto del suo lavoro. Lo si vede nelle opere di «Whispering City», dove lei manipola direttamente il modo in cui una lastra incisa verrà stampata, cancellando l’inchiostro da determinate aree.
Esattamente. Il fatto è che si tratta di un’operazione più difficile da imparare da soli. Ma una volta che l’hai fatto, non lo dimentichi più. Non si impara da qualcun altro e dal suo metodo; si impara il proprio metodo e questo rimane con te, nessuno potrà mai portartelo via. Quindi, in effetti, non poter accedere alla camera oscura è stato positivo per noi, in un certo senso. E mi ha permesso di acquisire amicizie che dureranno tutta la vita.

La mostra alla Power Plant Contemporary Art Gallery presenta molte opere che attingono ai ricordi della sua famiglia e della sua comunità. Alcune risalgono agli anni Novanta. Come ci si sente a rivisitare questi vecchi lavori?
In studio sono meticolosa. Quando il lavoro è così vecchio, devo davvero tornare indietro e capire chi era la persona che ha realizzato quell’opera. È incredibilmente emozionante rivisitare un lavoro che ho fatto anni e anni fa ed evocare le emozioni e le persone che stavo cercando di celebrare. Tornando a «Harlem Quilt», all’epoca mia madre e mia sorella erano ancora vive. Così vieni riavvolto nella cerchia familiare dove vieni trattata come se avessi di nuovo sette anni; durante quell’anno mia madre mi chiedeva continuamente se il mio cappotto fosse abbastanza caldo. Mia madre era una modista e da bambina mi ha anche insegnato a cucire, e quando è andata a vedere la mostra allo Studio Museum, è entrata nella stanza in cui era esposta l’«Harlem Quilt» e ha detto: «Quella non è una trapunta». Quando torni a casa, devi ricordarti chi eri, o te lo fanno ricordare i tuoi famigliari.

L’«Harlem Quilt» potrà non essere un quilt tradizionale, ma condivide molti degli scopi di un quilt: registrare un ricordo o una tradizione attraverso i tessuti. Ha anche una qualità votiva. È quasi come entrare in una cappella.
Sì, esattamente, e ti avvolge. Sono molto soddisfatta di com’è venuta, nel senso che volevo davvero evocare la sensazione di essere cresciuta lì e di essere circondata da tutte le persone che si preoccupavano per me e volevano che fossi al sicuro.

La mostra dell’Art Gallery of Ontario, «Unrequited Love», è incentrata su una serie di bandiere che lei ha realizzato nel corso della sua carriera.
Mentre lavoravo a «Moral Disengagement», dove sono seduta a tirare i fili, mi sono guardata intorno e ho visto quante bandiere avevo fatto. Ho dovuto fare i conti con quello che provavo per quel simbolo e con il fatto che avesse permeato il mio essere da bambina. E poi, con Colin Kaepernick (il giocatore di football americano e attivista per i diritti civili che si inginocchiò durante l’inno nazionale per protestare contro la discriminazione razziale, Ndr), mi sono resa conto che la gente non aveva capito il suo gesto come lo avevo fatto io: ecco perché l’ho dedicato a lui. Perché tutti noi siamo cresciuti con le mani incrociate tutte le mattine sui nostri cuori, giurando fedeltà non al nostro Paese, non al nostro Presidente, ma alla bandiera. E a ciò che la bandiera significava per noi. Ma poi ha tradito molti di noi, nel senso che non ci siamo ritrovati nella bandiera.

Come artista di origine americana, che ha lasciato il Paese durante un periodo storico difficile e che ha trascorso la maggior parte della sua vita adulta fuori dagli Stati Uniti, com’è cambiata la sua percezione dell’identità americana nel corso degli anni?
Non direi che è cambiata. L’America è cambiata. Mi sento ancora molto, molto legata al suolo americano, ed è per questo che faccio queste bandiere e questi lavori. Amo il Paese in cui sono cresciuta. Non amo il Paese che è stato conquistato da persone meschine. Questo è un problema.

Pensa che la bandiera americana sia qualcosa a cui continuerà a tornare?
Non lo so. Pensavo di aver finito con «Perseverance Suite», ma ora sto realizzando alcuni nuovi pezzi. Non so se i lavori di «Homage» potrebbero continuare. Non si sa mai che cosa succede quando si è nello studio: posso entrare e aspettarmi di lavorare su un pezzo, ma poi un altro sale in superficie e cattura la mia attenzione.

«Untitled (irony)» (2010) di June Clark. © June Clark. Foto: Lf Documentation. Cortesia dell’artista e della Daniel Faria Gallery

Helen Stoilas, 19 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

Stelle, strisce e tradimenti nelle bandiere di June Clark | Helen Stoilas

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