A Bubbio (At), in un incantevole angolo di Langa, SAB - Spazio Arte Bubbio, ricavato negli ambienti di una ex cantina sociale risalente agli anni ’50, ospita dal settembre scorso mostre, concerti e presentazioni. Affidata alla direzione artistica di Alessandra Rauti con la collaborazione di Paolo Bonfiglio, la programmazione del nuovo spazio trova ispirazione nel concetto e nella pratica di «trasversalità», con il dichiarato, estensivo proposito di aprire: aprire la provincia all’Europa, aprire la cultura all’attiva partecipazione di chi vive il territorio, aprire le porte ad artisti che, indipendentemente dai livelli di notorietà social o di mercato, abbiano qualcosa da dire. Fino al 18 agosto ecco quindi a SAB «René Mayer Mutazioni furtive», mostra a cura di Luca Beatrice che raccoglie i lavori più recenti di un artista che si affaccia per la prima volta sulla scena internazionale. Imprenditore giramondo, René Mayer (Basilea, 1947) ha iniziato a dedicarsi alla pittura una ventina d’anni fa. Secondo la secolare consuetudine di tanti transalpini colti e bon vivants, l’artista frequenta l’Italia da decenni; un cammino a ritroso lo ha portato a risalire dall’«ovvia» Toscana alle Cinque Terre e dall’entroterra ligure al basso Piemonte, dove, restando «da subito amoroso del panorama», ha dichiarato con gallicismo deliziosamente espressivo, ha eletto Bubbio a sua seconda casa.
A SAB l’artista elvetico espone 30 grandi tele costruite su studiati equilibri di forme, spazi e rapporti cromatici e con applicate centinaia di fiches da gioco. Ecco, si potrebbe pensare, la solita trovata per dar patina di nuovo alla vecchia tradizione della pittura astratta! No, non proprio così. Bene i festosi colori pop, bene la gradevolezza del colpo d’occhio (che i quadri astratti possano anche essere «decorativi» era spauracchio di tanti maestri d’area del secolo scorso), bene l’ammirazione per quanta-pazienza-ci-vuole a incollare tutti quei dischetti, bene notare gli scoperti richiami all’astrattismo geometrico (soprattutto al Bauhaus, di cui Mayer ammira la fusione di arte e tecnica) e all’optical: se si sbircia però sotto la crosta dell’apparenza, si arriva a considerazioni meno sommarie. Degno di nota, anzitutto, il contrasto tra le fiches da Casinò, simbolo dell’alea suprema, e una composizione sorvegliatissima che non conosce azzardo né nell’impostazione, né nell’esecuzione, che avviene con l’ausilio di griglie che permettono di posizionare le fiches e calibrare le millimetriche percentuali di superficie da tingere. Anche la serialità delle file di gettoni (fino a 6/700 per tela) non deve ingannare: dall’alienante galera della ripetitività si evade attraverso progressive, minime variazioni di colore che suggeriscono semmai una riflessione sui tempi e sul Tempo. Dopo aver allettato l’osservatore con quadri a prima vista «facili», Mayer lo invita a esercitare occhio e mente alla ricerca di quegli irrisori mutamenti che producono però una capitale differenza. «Il mondo è un casinò al quale ci stiamo giocando il futuro del pianeta», afferma l’artista: ma talvolta sono proprio tanti piccoli cambiamenti furtivi a «preparare la rivoluzione», ad avviare a una maggiore consapevolezza, portandoci magari a migliorare i nostri comportamenti. Mica un gioco.