Domenico De Gaetano, direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino

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Domenico De Gaetano, direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino

Quarant’anni di Hollywood nella Mole Antonelliana

Centoventi props (oggetti di scena originali) al Museo Nazionale del Cinema di Torino, dalla spada laser di Luke Sky Walker alla scopa di Harry Potter, al cappello di Jack Sparrow, all’unico esemplare completo esistente del costume di Superman indossato da Christopher Reeve nel 1977. Il direttore Domenico De Gaetano spalanca le porte della fabbrica dei sogni, mentre ci racconta la storia del cinema e quella del collezionismo di cimeli, venerati come moderne reliquie, pagati e assicurati come opere d’arte d’inestimabile valore

Se è vero che, come diceva Bernardo Bertolucci, «ricorderemo il mondo attraverso il cinema», allora non c’è modo migliore che ricordarlo attraverso i suoi oggetti più magici, moderne reliquie capaci di «aprirci le porte di un mondo parallelo, un mondo che abbiamo dentro, con tutte le emozioni che abbiamo provato guardando quel film», precisa il direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino, Domenico De Gaetano.

A me è successo con la testa di scimmia di «Indiana Jones e il tempio maledetto» (1984), non solo per essermi immaginata Harrison Ford, Ke Hui Quan o Kate Capshaw alle prese con l’improbabile dessert a base di cervello di scimmia servito al suo interno, ma anche, e soprattutto, per essere riprecipitata in un singolo istante in uno di quegli spensierati pomeriggi seduta sul divano con la mia più cara amica di infanzia a guardare e riguardare quel film, recitandone le battute a memoria mentre la testina scorreva ancora e ancora sul nastro di quel divoratissimo VHS. La testa di scimmia, insieme alla bambola vudù del Tempio maledetto è uno degli oggetti di scena esposti nella mostra «Movie Icons. Oggetti dai set di Hollywood», curata da Domenico De Gaetano e Luca Cableri, visibile nel museo torinese fino al 13 gennaio 2025. Centoventi props (oggetti originali di scena) provenienti dai set di alcuni tra i più popolari film hollywoodiani degli ultimi quarant’anni, scelti non solo per raccontare una parte della storia del cinema e dei tanti suoi generi, ma anche per documentare un florido settore del collezionismo, sempre più ricercato da gallerie e case d’asta, e poi l’evoluzione del genere umano, dai primi viaggi spaziali alle manipolazioni genetiche, all’intelligenza artificiale, gli studi nell’ambito dell’arte e del design e le ricerche tecniche e di materiali di un mondo che va ormai incontro a processi di virtualizzazione sempre maggiori. 

Una veduta della mostra «Movie Icons. Oggetti dai set di Hollywood», al Museo Nazionale del Cinema di Torino fino al 13 febbraio 2025 © Marco Carosso

Di tutto questo abbiamo parlato con Domenico De Gaetano, fresco del successo della mostra di Tim Burton che con 500mila visitatori ha visto in uno dei musei più frequentati d’Italia un incremento del 21% di ingressi di 6-26enni: «sono stati capaci, spiega il direttore, di apprezzare il fatto che fosse una mostra di disegni in un’epoca dove tutto è virtuale, dove si viaggia per immagini e dove sono necessari device pazzeschi. Nel museo abbiamo una sala virtuale e ne apriremo presto una dedicata ai videogiochi, ma i ragazzi hanno capito che per esprimere la propria creatività bastano un pezzo di carta e una matita. Per noi è importante far comprendere quanto anche la materia sia fondamentale nella creazione cinematografica».

Anche questa, come quella di Tim Burton, è una mostra fatta di oggetti concreti.

Sì, abbiamo 120 props. Ed è una mostra transgenerazionale. Andiamo da «Harry Potter» all’«Uomo ragno», a «Guerre Stellari», agli «Avengers», «Batman», «Superman», «Forrest Gump», a tantissimi altri ancora. È un percorso molto diversificato ed eterogeneo e sono davvero quarant’anni di cinema americano.

Qual è la definizione di props?

Oggetti che non siano né riproduzioni, né oggetti di marketing né di preproduzione. Devono essere oggetti originali realizzati esclusivamente per girare una determinata scena, per la quale possono essere stati usati o meno. Per esempio l’esemplare esposto del robot di «Io, robot» (2004) si vede chiaramente che è stato usato, è tutto tumefatto. Altri invece sono duplicati di riserva fatti per essere tenuti sul set a disposizione.

Il costume di Superman, indossato da Christopher Reeve nel 1977 © Marco Carossio

Come e dove inizia il percorso?

Il percorso inizia nel tempio, con sei tra costumi e props che raccontano l’evoluzione del corpo umano, esposti in sei teche di vetro con vari specchi che rendono il tutto molto scenografico. Si inizia con il costume da spartano di «300» (2007) con elmo e mantello, poi si passa all’abito dell’agente H di «Men in Black: International» (2019), un costume molto elegante con giacca e cravatta nera: all’agente non serve la forza dei muscoli perché ha a disposizione vari congegni tecnologici per gestire gli alieni. Poi c’è la tuta da astronauta di «Armageddon» (1998), che serve invece per proteggere il (debole) corpo umano nell’esplorazione spaziale. Segue il corpo cibernetico di «RoboCop 2» (1990), un essere umano «trasformato» in robot per essere reso più giusto e perfetto, anche se alla fine salta fuori il suo animo umano, vendicativo e violento. Poi c’è il robot di «Io, Robot», dove non c’è più traccia dell’uomo: ma solo un puro robot, progettato per essere più umano degli umani. Infine il costume di La Cosa de «I Fantastici 4» (2005), con cui si va verso la mutazione genetica, verso un nuovo futuro. I film di fantascienza sono spesso premonitori di ciò che succederà. 

E poi si prosegue sulla passerella con oggetti in alcuni casi ancora più iconici delle star che li hanno usati.

Ci abbiamo messo mesi a capire come mettere insieme i 120 oggetti in mostra. Siamo partiti dal nostro «Alien» (nella nostra collezione abbiamo quello di James Cameron, che qui è esposto insieme alla versione di «Alien contro predator» del 2004) e quindi siamo partiti dagli alieni e dallo spazio, poi siamo passati alla terra, al cinema fantastico, all’acqua, al cinema per ragazzi, agli animali e ai super eroi, per poi concludere con un cinema più violento e l’horror. Abbiamo il preziosissimo costume di Superman del 1977, quelli di Batman e l’Uomo Ragno, gli elmi degli Avengers, il martello di Thor e lo scudo di capitan America. Le pistole di «Pulp Fiction» (1994) e un modello di Pennywise di «It» (1990). Il costume da extra terrestre di «Incontri ravvicinati del terzo tipo» (1977), il modello di marziano per le riprese in stop motion di «Mars Attack» (1996), uno dei caschi degli stormtroppers usato nel 2015 per «Guerre stellari. Il risveglio della forza», è molto raro perché George Lucas sta creando il proprio museo e non dà più niente in giro. C’è un pelo di Chewbecca staccatosi dal costume originale del 1977: si arriva quasi al feticismo, a una sorta di valore religioso associabile a moderne reliquie, suggestive quanto un tempo potevano essere le schegge della santa croce. C’è una versione della spada laser usata da Luke Skywalker nel 2015, 2017 e 2019. Il cappello di Jack Sparrow. Il giubbotto di salvataggio di Titanic, il costume (da indossare) di Leonardo delle «Tartarughe Ninja» (1990) e il pellicano animatronico di «Jumanji» (1995), prototipo degli effetti speciali di un tempo, azionato meccanicamente a distanza attraverso dei cavi. C’è una delle scope di Harry Potter, che in realtà sembra un oggetto molto hi tech, e il boccino d’oro. C’è la pallottola di Matrix che Neo prende in mano alla fine.

uno dei caschi degli stormtroppers usato nel 2015 per «Guerre stellari. Il risveglio della forza» © Stefano Guidi

Il giubbotto indossato da Neo nella scena delle pallottole di «Matrix» © Stefano Guidi

Come si espone questo tipo di oggetti?

Ci siamo chiesti se il modo migliore fosse ricreare tutta la loro scenografia intorno o piuttosto inquadrarli come si farebbe con un oggetto prezioso come un anello di Cartier: con una piccola teca e due lucine per valorizzarli al meglio. E abbiamo optato per quest’ultima soluzione. Sono oggetti talmente famosi che non necessitano di accompagnamento. Li abbiamo semplicemente corredati con dei manifesti e locandine delle nostre collezioni e in alcuni casi con qualche fotogramma o sequenza di film. Chiunque venga qui ha visto almeno la metà dei film da cui i props provengono. Il nostro compito è stato di musealizzare questo collage di oggetti che non hanno nient’altro in comune se non un fortissimo potere evocativo. 

Che impatto ha avuto l’avanzamento tecnologico sugli effetti speciali e sui props? Per esempio nel primo episodio di «Guerre stellari» del 1977 le battaglie spaziali erano fatte con modellini in scala. Oggi la computer grafica ha reso obsoleto l’uso di molti oggetti di scena.

La virtualizzazione dell’opera d’arte e del cinema più in generale è uno dei tasti dolenti… Una volta nelle sale arrivava la pellicola, adesso arriva un file con una password e una data di scadenza. Si sta smaterializzando un po’ tutto. Alcuni oggetti di scena, personaggi o animali di fatto non esistono quasi più, per esempio il Gollum del «Signore degli anelli» è completamente virtuale. Ci sono ormai molte scene dove gli attori interagiscono con animali o armi particolari che non esistono sul set, ma che sono aggiunti in post produzione.

 

Questo rende l’oggetto di scena ancora più interessante e ne aumenta il valore.

Sì, perché stanno scomparendo. Sono gli ultimi residui di un cinema fatto con altri mezzi e con altre professionalità, scenografi, creatori di pupazzi, specialisti di vari art department, esperti di effetti speciali, che già e soprattutto sul set arricchiscono il film secondo i desiderata del regista, inventando per esempio la spada laser di «Guerre Stellari», piuttosto che «Alien». Oggi hanno assunto molta più importanza la postproduzione e la computer grafica.

Uno dei costumi di Batman © Stefano Guidi

Da dove provengono i props in mostra?

Una decina dalle nostre collezioni, la maggior parte da collezioni private, in particolare da quella di Luca Cableri, che nella sua galleria Theatrum Mundi ad Arezzo ha iniziato quasi per gioco una decina di anni fa a comprare e accumulare props. Il pezzo più raro, l’unico costume completo esistente di Superman, indossato da Christopher Reeve nel 1977, ci è stato concesso in prestito da un collezionista di Londra

Cimeli e memorabilia sono un genere in forte crescita nel mondo del collezionismo di alta fascia. Importanti case d’asta si sono dotate o si stanno dotando di dipartimenti dedicati. Nell’ultimo «Rapporto annuale Case d’asta», stilato da «Il Giornale dell’Arte» lo scorso febbraio, compaiono fra i top lot una miniatura cinematografica di «X-wing Starfighter», utilizzata in «Guerre Stellari. Una nuova alleanza» (1977) e battuta a circa 3 milioni di euro, e una testa meccanica da «E.T. L’Extra Terrestre» (1982), venduta a circa 600mila euro (entrambe nel mercato americano). Com’è cambiato il collezionismo?

Per la mostra siamo entrati in contatto con Stephen Lane, fondatore e ceo di Propstore, la principale autorità al mondo in materia. Ci ha supportato, offerto alcuni consigli importanti e concesso in prestito il costume di Superman del 1977, l’oggetto più raro e prezioso tra quelli esposti, che ha necessitato di coperture assicurative pari a quelle di un’opera d’arte dal valore inestimabile. Una volta trovare questo tipo di oggetti, piuttosto che pizze di pellicola, fotografie o manifesti, era molto più facile, c’erano vari mercatini o location fisiche dove appassionati e collezionisti potevano fare scambi. Adesso la maggior parte degli oggetti circola attraverso le aste online con clienti da tutto il mondo, si entra in competizione con collezionisti privati molto facoltosi con i quali per noi è impossibile competere. Il museo esiste grazie al collezionismo pionieristico di Maria Adriana Prolo e della Federazione internazionale degli archivi filmografici (Fiaf). È grazie a loro che possiamo raccontare la storia del cinema muto e del precinema, nonostante ci sia pervenuto solo circa il 10%-20% di ciò che è stato realizzato, perché a quell’epoca non era ritenuto così importante, le cose si facevano e poi si buttavano via (come succedeva ancora ai tempi del costume di Superman). È solo negli ultimi 30 anni che l’industria americana ha capito il business di questi oggetti, capaci di assumere un valore inestimabile. Gli oggetti che si vedono qua sono per la maggior parte oggetti straordinari creati appositamente per il set, sono davvero pochi gli oggetti comuni prestati ai film e che abbiamo scelto più che altro per il loro valore simbolico, come la piuma di «Forrest Gump», il giubbotto indossato da Tom Cruise ne «La guerra dei mondi» o i guantoni di Rocky Balboa, simbolo della rivalsa dell’uomo di periferia nei confronti della vita. 

E la loro conservazione?

Sono oggetti fatti per girare il film, non per durare nel tempo. In molti casi sono materiali delicati, che tendono a seccarsi e a sgretolarsi, come il nostro Alien, che sta invecchiando e per il quale ora si rende necessaria una costosissima nuova teca climatizzata. 
 

Il costume di Leonardo delle «Tartarughe Ninja», tra i più difficili da conservare © Stefano Guidi

I guantoni di Rcoky Balboa © Stefano Guidi

Jenny Dogliani, 03 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

Quarant’anni di Hollywood nella Mole Antonelliana | Jenny Dogliani

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