Le regge e le corti erano popolate da animali. Molti erano quelli raffigurati in opere che potevano o esprimere significati allegorici o rimandare a scene di vita di corte, di cui alcuni di loro erano protagonisti. È il caso, diffusissimo, dei dipinti dedicati alle cacce reali, animati dalla presenza di cavalli e cani fra i predatori e di cervi, cinghiali o quant’altro fra le prede.
Molto maggiore era, però, il numero degli animali che vivevano nei palazzi. Si andava da quelli di compagnia, cani, gatti, uccellini, scimmie, a quelli che erano usati per gli approvvigionamenti alimentari, mucche, galline, capre, tacchini, maiali, per giungere agli animali esotici, tigri, leoni, giraffe, che esprimevano gusto e magnificenza dei sovrani.
A questo universo, che condivideva con gli umani la vita quotidiana della corte, è dedicata la mostra «Les animaux du Roi», a Versailles fino al 13 febbraio 2022. Curata da Alexandre Maral, conservatore in capo al Château de Versailles, e da Nicolas Milovanovic, che riveste la stessa carica al Louvre, l’esposizione non si limita a presentare una serie impressionante di opere rare e di grande qualità.
Essa, infatti, s’inserisce a pieno titolo nel dibattito culturale che nell’ultimo ventennio ha segnato la «question animale». Il direttore di Versailles Laurent Salomé, anzi, nel suo intervento sul catalogo definisce la mostra «particulièrement novatrice», inserendola nel dibattito da tempo in atto sul ruolo degli animali nella società umana.
Com’è noto infatti, negli ultimi decenni gli animali sono divenuti a pieno titolo oggetto di storiografia. Sono trascorsi dieci anni da quando Eric Baratay ha pubblicato Le point de vue animal. Da allora gli studi che hanno cercato di creare una storiografia allargata ai «non humains» si sono moltiplicati e hanno raggiunto anche gli spazi della corte. Ricordo qui solo i tre volumi di Daniel Roche L’ombre du cheval (2008-15), che hanno restituito al cavallo il suo ruolo di protagonista della società d’antico regime, e le opere di Joan Pieragnoli, fra cui il recentissimo Le prince et les animaux. Une histoire zoologique de la cour de Versailles au siècle des Lumières (Éditions de l’Université de Bruxelles, 2021).
Ma numerosi sono stati negli ultimi anni i convegni in cui studiosi delle corti di tutta Europa si sono trovati per disegnare una «autre version de l’histoire de cour», parafrasando il titolo della citata opera di Baratay. Mi limito qui a ricordare solo l’importante convegno «Animals at Court», tenutosi alla Ludwigs-Maximilians Universität di Monaco, col patrocinio, fra gli altri, della Society for Court Studies.
In questo dibattito la mostra entra apertamente. Essa, infatti, rivendica a Versailles un ruolo di opposizione alle teorie di Cartesio, che vedeva negli animali esseri-macchina privi di anima. Quella francese, per riprendere ancora le parole di Salomé, era una «cour éclairèe, sinon héroïque, bastion de résistance dans un océan de machinisme cartésien».
Non a caso, era uomo di corte (luogotenente delle cacce di Versailles e Marly), oltre che amico di Diderot e d’Alembert, quel Charles-George Leroy autore delle Lettres philosophiques sur l’intelligence et la perfectibilté des animaux (1768). Le opere d’arte esposte in mostra sono sempre messe in relazione col contesto filosofico e letterario. Si pensi, per esempio, al bel ritratto di Général, l’imponente gatto nero di Luigi XV, dipinto da Jean-Baptiste Oudry nel 1728, solo un anno dopo la pubblicazione della celebre Histoire des chats: dissertation sur la prééminence des chats dans la société di François-Augustin Paradis De Moncrif.
Fra i numerosi pregi della mostra va ricordato anche quello di riportare l’attenzione su due spazi oggi scomparsi della Versailles di Luigi XIV: la Ménagerie, ove erano accolti gli animali rari ed esotici, e il Bosquet du Labyrinthe, in cui erano fontane e statue che raccontavano le favole d’Esopo. Una mostra, quindi, che appare destinata a lasciare un segno duraturo e che dovrebbe costituire un esempio anche da questa parte delle Alpi.