264 a.C.: un anno fatale per la storia di Roma e per la romanizzazione dell’Etruria. È l’anno della conquista di Velzna, l’odierna Orvieto, ultima città-stato etrusca a cadere in mano romana, e anno della prima guerra punica, preludio della supremazia romana del Mare Mediterraneo. Ora la mostra «Volsinio capto 265-264 a.C.», inaugurata il 7 settembre e visibile fino all’8 dicembre presso il Museo Etrusco Claudio Faina di Orvieto, racconta quel cruciale momento, e lo fa con importanti reperti archeologici, contestualizzati nelle vicende di «Volsinii», Orvieto, in lingua latina.
È lo storico bizantino Zonara, nella prima metà del secolo XII, a narrare gli avvenimenti. Nel 265 a.C. l’aristocrazia di Velzna, allontanata da una rivolta, chiede l’intervento dell’esercito romano, che assedia la città. Nel 264 Velzna cade, viene distrutta forse per vendicare l’uccisione di un console, e gli abitanti superstiti vengono deportati sulle alture attorno al lago di Bolsena. «L’intervento, dice Giuseppe M. Della Fina, curatore dell’esposizione, è uno dei più duri realizzati da Roma nella penisola italiana, un vero e proprio messaggio di terrore che i vincitori volevano inviare a tutti gli Etruschi, nel momento in cui l’Urbe si accingeva ad affrontare Cartagine, una delle superpotenze mediterranee».
Al comando dell’esercito che prese Velzna era il console Marco Fulvio Flacco, che volle celebrare la vittoria con un’iscrizione incisa su blocchi di peperino: «Marco Fulvio Flacco, figlio di Quinto, console, dedicò dopo la presa di Velzna (Volsinio Capto)». La monumentale iscrizione, in quattro frammenti, base di un donario decorato da statue, probabilmente in bronzo, fu rinvenuta nel 1937 a Roma, nell’attuale Area Sacra di Sant’Omobono, ai piedi del Campidoglio. Il reperto, venuto alla luce nel corso di demolizioni per la costruzione dei nuovi Uffici del Governatorato, è da pochi anni esposto presso la Centrale Montemartini, e questa è la seconda occasione espositiva, dopo la mostra del 2020, «Viaggio nelle terre dei Rasna», al Museo Civico di Bologna, in cui viene presentato fuori Roma. «Qui la presenza del donario che ricorda la distruzione della città, continua Della Fina, ha un significato particolare, perché viene esposto nella medesima città, in seguito rinata. Dopo il crollo dell’Impero romano, molti abitanti scelsero di tornare a vivere nel territorio dell’antica Velzna. Per l’insediamento, destinato a una crescita rapida, si pensò al nome “Ourbibenton”, (quindi Urbs Vetus, Orvieto): la città vecchia».
L’esposizione è organizzata dalla Fondazione per il Museo Claudio Faina, in collaborazione con Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, ed è accompagnata da un catalogo Palombi Editore, con testi di Claudio Parisi Presicce, Monica Ceci, Francesca de Caprariis, Anna Maria Rossetti e del curatore. La mostra, che si snoda attraverso tre sale, chiude il percorso museale, in modo tale da permettere al visitatore di attraversare la storia, la cultura, le relazioni commerciali della città prima della sua distruzione. Accanto al donario di Flacco, è esposta una magnifica scultura, sempre conservata a Roma, presso il Museo Barracco. Si tratta di una testa femminile in trachite (forse un’Arianna), di eccellente fattura, proveniente da Orvieto e databile agli inizi del III secolo a.C., una delle ultime testimonianze dell’alto livello raggiunto dalla produzione artistica della città di Velzna.