«Non mi esprimo su quel dipinto, disse un tale, perché, come sai, m’occupo solo di scultura». Saggia cosa arrestare il proprio passo sulla soglia dell’ignoto; ma chi studiasse, per dire, i «Prigioni» di Michelangelo, dovrebbe forse passare alla larga dalla sua, pur rispettabile, opera pittorica, o no? Così, mettendo da parte la prudenza, non solo ho messo piede dentro alla mostra allestita al Bargello e a Palazzo Strozzi su Donatello ma m’avventuro persino a scriverne sopra.
Lo faccio, però, vestendo i panni del visitatore comune, ossia di chi non si occupa né di scultura né di pittura salvo, forse, nel weekend e per suo diletto, insomma a tempo perso. E il tempo tra quelle sale scorre lesto, perché ignorando, appunto, le questioni d’autografia o d’iconografia a lungo dibattute e attorno alle quali il consenso degli specialisti è sempre assai sfuggente, mi sono limitato a guardare.
Magari, l’occhio abituato a scivolare sulle cose meno speciali si affaticherà meno di quello che, invece, provasse a guardare tutto con la stessa attenzione (perché, forse, si poteva rinunciare ad avere qualche opera diciamo «minore»); magari, strizzando l’occhio a qualche mostra d’Oltralpe o a qualche decoratore d’interni nostrano, il ricorso a un pizzico in più di charme nell’allestimento non avrebbe compromesso il valore scientifico dell’esposizione.
Ma se il visitatore, dimentico di tutto ciò, si limitasse a guardare le opere esposte capirebbe senza troppe spiegazioni che aveva ragione il Vasari quando, di Donatello, scriveva che si deve «riconoscere la grandezza dell’arte più da costui che da qualunque sia nato modernamente». Detto in altre parole, chiunque di fronte alle brache calate del putto in bronzo noto come «Amore-Attis» dovrebbe rimanere a bocca aperta e, al cospetto dei Battenti della Porta dei Martiri dalla Sagrestia Vecchia della Basilica di San Lorenzo, pentirsi del cancello in ferro battuto eseguito da un fabbro di paese.
Provando a sintetizzare, direi che negli ultimi 13mila anni tre sono i fattori di cambiamento del mondo: non proprio Armi, acciaio e malattie, come dice Jared M. Diamond (1998), bensì Armi, bronzo e malattie. Perché dopo aver visto questa mostra si capisce come, più della pietra, del marmo o della terracotta, quel materiale duttile e caldo come cioccolata fondente abbia assunto nelle mani di Donatello la forma eterna e senza tempo che determina i veri capolavori della storia (e non solo dell’arte). E se opere così non contribuiscono a toccare gli spiriti poco altro che esca dalle mani d’un uomo lo potrà mai fare.
Marco Riccòmini è Art advisor
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