«Larger than life», come dicono gli inglesi. Più grande della vita (e anche della morte), Chiara Fumai è persona e personaggio a cui stanno strette tutte le definizioni. Molto più che artista visiva, più che performer, più che filmmaker, più che musicista, più che femminista. In soli dieci anni di lavoro ha portato alle estreme conseguenze tutte le discipline, militanze, teorie e filosofie che ha toccato. Poi il 16 agosto del 2017 ha messo volontariamente fine alla sua vita a soli 39 anni. Muore giovane chi è caro agli dèi, ma anche agli spiriti che governano le arti, quelli che Chiara riusciva a catturare fino a lasciarsi possedere riportando in terra le vite estreme di donne ribelli o messe ai margini: freak, streghe, sensitive, creature rivoluzionarie o superumane. Sia figure storiche come Valerie Solanas o Rosa Luxembourg sia fenomeni di natura come Annie Jones, la donna barbuta del circo Barnum, sono per lei (e in lei) tutte «compagne, sorelle, alleate», in una radicale militanza che appartiene tanto all’arte, quanto alla rivolta contro una cultura patriarcale e dittatoriale. Il suo corpo, la sua voce, le sue azioni, le sue orazioni e le sue possessioni diventano strumento di lotta che a ogni evento che la ricordi, a ogni mostra che la celebri, tornano con una forza e un’energia che travalica il ricordo postumo.
Così è anche per «Chiara says Chiara», la mostra che il museo della Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare (Ba) presenta dal 19 ottobre al 12 gennaio 2025. La curano Andrea Bellini e Milovan Farronato, già autori dell’antologica itinerante (Genova-Prato- Bruxelles) che ha raccolto il suo lavoro nel 2020. Ma soprattutto entrambi direttori dell’Archivio Fumai che ha trovato la sua sede proprio a Polignano per lasciare che le testimonianze, le memorie, le opere e i feticci restino nella terra origine dell’artista e nelle mani di chi l’ha conosciuta bene ed è in grado di interpretare anche gli occulti segnali che arrivano da opere incompiute o progetti lasciati in un cassetto. Ed è proprio Milovan Farronato, suo amico fraterno, che in occasione della mostra pugliese, ricorda Chiara Fumai: artista, femminista e molto altro ancora.
Nel 2019 quando le fu affidato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, in un punto cruciale del percorso volle ricostruire un lavoro di Chiara Fumai (il grande murale «This Last Line Cannot Be Translated», Ndr), la più giovane dei tre artisti scelti, l’unica purtroppo già scomparsa. Fu soprattutto il segno della sua stima verso un’artista non omologabile, ma anche un gesto di affetto verso una persona a cui la legava una profonda amicizia. Come e quando vi siete conosciuti?
Era dicembre del 2007, lo ricordo bene. Chiara aveva appena avuto la sua prima mostra da Careof a Milano e venne a via Farini per presentare il suo portfolio. Mi colpì come persona e come artista e ne scrissi in una rubrica che allora tenevo su «Exibart». Si creò immediatamente un dialogo e qualche tempo dopo sostenni la sua partecipazione a dOCUMENTA (13), diretta da Carolyn Christov-Bakargiev. Avevo ragione, perché a Kassel portò tre straordinari, indimenticabili lavori che la qualificarono come una degli artisti più potenti di quell’edizione.
Che cosa ricorda dei vostri primi incontri?
Ho sentito immediatamente che nella sua visione e nelle sue performance abitava una realtà, anzi una totale partecipazione che rendeva la realtà più vera. Chiara viveva fino in fondo le sue immagini, le sue fantasie o, se vogliamo, allucinazioni, e io trovavo tutto questo estremamente poetico. Ne ero attratto, nonostante fosse un personaggio sfuggente, enigmatico e in parte multidimensionale, un’artista che non riuscivo a definire. Si presentava come un tutt’uno: dj, grafica, performer, artista visiva. All’inizio pensai che avesse patologiche manie di controllo dalle quali nasceva il bisogno di gestire in prima persona ogni aspetto del suo lavoro, poi ho capito che questo atteggiamento derivava soprattutto dal desiderio di indipendenza e autonomia. Voleva controllare gli aspetti della sua creatività a 360 gradi: tutte le sedie che usava per le performance erano scelte da lei, vestite da lei, così come i costumi di scena che nascondevano il proiettore sotto gli strascichi per essere libera dai vincoli di un apparato tecnico da adattare al luogo. Poteva raccontarsi in prima o in terza persona, sapeva raccogliere delle moltitudini… Questo aspetto così fluido da una parte mi incuriosiva, dall’altra mi inquietava. Ed ecco che siamo diventati amici.
Chiara Fumai sapeva coltivare l’amicizia?
Assolutamente sì. Ci sentivamo e ci scrivevamo spesso. Mescolavamo banalità e pensieri filosofici. Sono stato il suo riferimento anche per progetti che non mi riguardavano direttamente. Me ne parlava sempre. Il nostro rapporto è stato costante, continuativo, senza interruzione. Qualche malumore, ma mai litigio.
Quando nacque il vostro rapporto professionale?
A Stromboli nel 2011, dove ho curato la sua mostra e lei ha performato Houdini per la prima volta. Da lì, Houdini alternato a Rosa Luxemburg è stato un progetto che ha portato avanti fino alla fine della sua vita.
È possibile definirla performer o nel caso di Chiara le sembra un termine riduttivo?
Sono convinto che tutta la sua arte sia performativa. Lo sono i suoi ambienti, i suoi percorsi mentali. Nel mio immaginario Chiara è come una casa stregata che offre energie e spazio. Ma dire che il suo mezzo espressivo fosse unicamente la performance è assolutamente riduttivo. La sua forte presenza performativa non le impediva di creare luoghi, scrittura, testi. Mi piacerebbe molto, come futuro progetto, raccogliere tutti i suoi testi, compresi i copioni dei suoi personaggi, le frasi che circondano i collage e che implicano sempre altre cose, le lettere di presentazione o introduzione dei personaggi in cui lei si firmava come gallerista di Annie Jones o Zalumma Agra, la donna circassa di Barnum. Si firmava con grafie sempre diverse, significative della percezione del sé in mutazione continua.
Possiamo dire che sia stata la radicalità del suo femminismo ad averle permesso di sviluppare un pensiero magico? Un’autocoscienza estrema, una sorta di discesa agli inferi dell’essere donna che la porta all’annullamento e alla moltiplicazione delle identità?
Direi proprio di sì. E aggiungo: una parcellizzazione dell’io per poter volare...
Come ha interpretato il suo suicidio?
Non l’ho compreso. L’avevo vista poco tempo prima ed era molto produttiva, progettava un trasferimento da Bari a Bruxelles, stavamo lavorando insieme a una nuova mostra da Guido Costa. Non mi sono reso conto di un disagio particolare. Successivamente l’ho letto come una sua scelta.
Intende dire un gesto artistico?
In qualche modo. Comunque un gesto sovversivo e non di sconfitta.
Come viveva il fatto di essere molto bella, ne era consapevole?
Vagamente compiaciuta, direi. Non aveva paura della sua nudità, aveva accettato di fare il calco del suo corpo su richiesta di Roberto Cuoghi che, attraverso lei, voleva fare omaggio a Vera Morra, un’amica artista morta precocemente (opera in mostra, Ndr). Si faceva fotografare mentre depilava le zone intime. Era sicura del suo corpo. Ma in fondo viveva con distacco la sua bellezza.
Ma è possibile chiudere in un archivio o restituire in una mostra questa personalità fuori dal comune, questa energia che ha descritto?
La mia idea di archivio non è quella di sovrintendere un materiale, piuttosto un metodo immersivo che riveli attraverso le connessioni cose magari meno evidenti, sfuggite o rimaste fra le righe. E poi vorrei che il suo lavoro continuasse a vivere. Mi piacerebbe chiedere a persone che le sono state vicine, curatori come Andrea Bellini o artisti come Paulina Olowska, di scrivere lettere alle sue «sorelle», un’operazione che Chiara approverebbe sicuramente. Vorrei insomma pensare all’archivio come a un materiale incandescente che si presta a varie letture. Sto selezionando anche le mail in cui appaiono impaginati, osservazioni, spunti di partenza per altro, cose che nel tempo si sono sedimentate pur non diventando esattamente opere. Ma di certo non escludo il lavoro tecnico di ricerca del materiale o la digitalizzazione.
Come procede quando costruisce una mostra?
Con lo stesso principio. Nella mostra di Polignano abbiamo scelto alcune tappe cruciali del suo lavoro che saranno messe in stretto dialogo fra loro e incatenate all’interno di un percorso in cui l’esordio artistico di Chiara finisce per ritrovarsi nell’epilogo. Altro importante contributo è la proiezione della lezione che lei tenne allo Iuav di Venezia durante un mio corso. Due ore e mezza in cui parla di arte, esorcismo, del suo modo di vivere la performance, del percorso di donna e artista nella sua generazione. Un filmato arricchito da un montaggio che documenta anche opere che non sono in mostra e che sarà proiettato ogni giorno dalle 16 alle 18. Comunque è certo che, nel rispetto della sua personalità, per comunicarci la sua energia ogni mostra dovrà inevitabilmente essere sempre diversa dalla precedente.
Che cosa le manca di Chiara Fumai?
Come artista non mi manca mai, la sento continuamente presente in quanto mi occupo di lei quasi ogni giorno. Come amica mi manca la sua presenza enigmatica, shakespeariana, l’altalena dei suoi umori, l’incupirsi all’improvviso e soprattutto quel suo vociferare sottile.