Dal 14 giugno al 22 settembre la Photographers’ Gallery presenta una grande mostra dedicata alla ricerca di una delle più importanti e influenti fotografe latino-americane, Graciela Iturbide (Città del Messico, 1942). Quello dell’autrice messicana è un immaginario affascinante quanto stratificato, che coniuga un approccio documentario rigoroso e mai superficiale con una grande libertà nel processo di costruzione delle immagini. Fotografie dal sapore magico e spesso surreale (non a caso Iturbide si è formata accanto a Manuel Álvarez Bravo, di cui è stata anche assistente), che vengono definite dall’artista stessa come «astrazioni della mente». L’esposizione presenta alcune delle sue serie più iconiche, che esplorano tematiche legate all’identità e al senso di appartenenza culturale, e vogliono essere dei passepartout per cercare di comprendere la totalità e la complessità del suo Paese d’origine, il Messico (definito da André Breton come un luogo «istintivamente surrealista»).
Durante la sua lunga carriera, l’artista ha lavorato e vissuto a stretto contatto con alcune delle popolazioni indigene della zona, documentandone la cultura e la quotidianità con attenzione e sensibilità. «Vivevo con loro nelle loro case, racconta Graciela Iturbide, così potevano vedermi sempre con la mia macchina fotografica e sapere che ero una fotografa. In questo modo, siamo riusciti a instaurare un clima di complicità». Tra i lavori esposti a Londra, «Juchitán de las Mujeres», realizzato tra il 1979 e il 1989, che costituisce un’immersione nella società matriarcale degli Zapotechi del Tehuantepec, nel sud-est del Messico e che racconta di tutti gli aspetti della loro vita sociale, dall’economia ai rituali religiosi.
Tra gli altri soggetti della sua instancabile e approfondita narrazione del mondo latinoamericano, ci sono anche il popolo Seri, gruppo di pescatori nomadi del deserto di Sonora, nel nord-ovest del Messico, e le cholo gangs messicano-americane di Los Angeles e Tijuana. «Graciela Iturbide: Shadowlines», curata da Alexis Fabry in collaborazione con Anna Dannemann, traccia l’evoluzione dell’universo visivo dell’autrice, caratterizzato da un potente utilizzo del bianco e nero che conferisce alle sue fotografie un intenso impatto visivo e una buona dose di fascino. Seguendo il percorso espositivo, diventa evidente il progressivo abbandono dell’interesse per la figura umana a favore di materiali, texture e soggetti naturali tra cui paesaggi vuoti e cactus. Nonostante questo cambiamento, un elemento rimane sempre costante: l’attenzione e l’interesse per la luce e per le ombre. Per l’artista, che ha come ideale punto di riferimento anche Henri Cartier-Bresson, la fotografia è infatti uno strumento poetico di introspezione: «La fotografia non smette mai di sorprendermi, afferma Iturbide, continua a darmi una ragione per apprendere sempre qualcosa sul mondo e su me stessa».