«Productivity Gains (Brandon/Accountant)» (2016) di Josh Kline (particolare). © Josh Kline.

Foto Joerg Lohse. Cortesia dell’artista e 47 Canal, New York

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«Productivity Gains (Brandon/Accountant)» (2016) di Josh Kline (particolare). © Josh Kline.

Foto Joerg Lohse. Cortesia dell’artista e 47 Canal, New York

L’American Dream è diventato il nostro peggior incubo

Radicato nella filosofia del postumanesimo, il lavoro di Josh Kline al Whitney Museum di New York è una critica dell’economia neoliberista americana. L’alternativa è la cura reciproca rispetto all’individualismo

Josh Kline: Project for a New American Century

Noto per le sue installazioni distopiche e inquietanti, Josh Kline (Filadelfia, 1979) utilizza scultura, video e installazione per analizzare l’impatto della tecnologia sulla società, sul lavoro e sulla vita umana. «Project for a New American Century» è la retrospettiva dell’artista in corso al Whitney Museum of American Art di New York fino al 13 agosto.

Nonostante il tono propositivo del titolo, la mostra presenta una critica viscerale dell’economia neoliberista americana e riflette su temi urgenti come la natura disumanizzante del lavoro, i dubbi sviluppi dell’intelligenza artificiale, il disastro climatico e l’indebolimento della democrazia. La mostra si apre con «Blue Collars» (2014-20), una serie di ritratti scultorei e videointerviste di sei lavoratori americani impiegati nel settore dei servizi: dipendenti di FedEx, Walmart e addetti alle pulizie in hotel e ristoranti. Veniamo subito colpiti dalla vista di carrelli della spesa contenenti parti di corpi umani, insieme a pacchi di FedEx o Walmart.

Kline ha scansionato le teste, braccia e gambe dei lavoratori per crearne sculture 3D. Nelle videointerviste, ognuno di loro parla per circa quindici minuti delle proprie condizioni di lavoro, preferenze politiche e aspirazioni future. Le storie sono schiette e talvolta commoventi, ma mai compassionevoli. Kline vuole far comprendere al pubblico le condizioni di lavoro disumane a cui sono sottoposti i lavoratori precari, spesso privi di assicurazione sanitaria.

L’artista utilizza le stesse tecnologie che critica. Ad esempio, utilizzando la scansione fotografica per digitalizzare il corpo umano Kline mette in relazione il processo di produzione delle sue opere con la crescente automazione del lavoro e misurazione della produttività attraverso i dati biometrici. Legata alla filosofia del postumanesimo, l’arte di Kline esplora come la tecnologia cambi ciò che significa essere umani.

Un altro lavoro notevole è «Freedom» (2014-16), in cui quattro manichini di poliziotti coi volti dei Teletubbies proiettano un video, installato sulle loro pance. Per chi non li conoscesse, i Teletubbies sono i personaggi di una serie televisiva per bambini in cui quattro peluche con le antenne in testa balbettano tra loro e guardano film di bambini, su schermi posizionati nelle loro pance.

Nel 2011 l’artista ha preso parte a una protesta del movimento Occupy Wall Street a New York, in cui per circa sei ore la polizia ha puntato le telecamere sulla folla per riprendere i volti dei protestanti pacifici. Kline ha reimmaginato i poliziotti come Teletubbies, mentre riproducono un video in cui i poliziotti assumono l’identità degli attivisti attraverso un software di scambio facciale, e leggono le conversazioni degli attivisti riprese dai loro social media, su questioni di violenza, privacy e tortura. Come se la resistenza fosse stata inghiottita dagli stessi sistemi a cui si opponeva.

In particolare, l’opera richiama il controverso Patriot Act del 2001 che, violando il diritto alla privacy, ha permesso alla polizia di videosorvegliare e ottenere informazioni su individui privati a scopo anti terroristico. L’artista si chiede se, in una società in cui i social media, in mani private, collaborano con l’apparato di sicurezza dello Stato, sia possibile sostenere un dibattito democratico.

Senza dubbio l’installazione più impressionante è «Unemployment» (2015-16), che mostra sculture iperreali di esseri umani accovacciati a terra, all’interno di sacchi della spazzatura trasparenti. Qui Kline immagina le conseguenze umane e sociali della disoccupazione di massa, in un futuro in cui la maggior parte dei posti di lavoro sarà sostituita dalle macchine. Anche qui l’artista ha fatto la scansione fotografica di persone che hanno realmente perso il lavoro, creandone sculture 3D. Esseri umani asfissiati e resi obsoleti da un sistema economico orientato al massimo della produttività.

La mostra inizia come un ritratto oscuro del presente e si conclude esaminando possibili alternative. In «Universal Early Retirement» (2016) due spot pubblicitari promuovono un possibile futuro in cui le persone avranno il tempo per dedicarsi ad attività difficilmente sostituibili dalle macchine, come curarsi dei propri familiari, prendersi una laurea o creare opere d’arte.

Replicando l’estetica fluo e luminosa delle pubblicità, viene presentata un’alternativa all’American Dream, dove la cura reciproca è privilegiata rispetto all’avanzamento individuale. L’opera suggerisce idee su come poter persuadere le persone a votare per politiche radicali come l’Universal Basic Income. Il lavoro di Kline invita a ripensare il nostro rapporto con il lavoro e con il tempo, stimolando la nostra capacità di intervenire attivamente nella società e sul futuro cui ci stiamo dirigendo.

«Josh Kline: Project for a New American Century»,
a cura di Christopher Y. Lew con McClain Groff, New York, Whitney Museum of American Art, 19 aprile-13 agosto 2023
 

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Luciana Fabbri, 26 maggio 2023 | © Riproduzione riservata

L’American Dream è diventato il nostro peggior incubo | Luciana Fabbri

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