Elegante e discreto, Jeff Wall (Vancouver, 1946) non corrisponde al prototipo della star. Si sposta con movimenti controllati e silenziosi, solo gli occhi si muovono veloci mentre non perde di vista nessun dettaglio del circo di giornalisti, fotografi e curiosi che lo segue per le sale del Virreina Centre de la Imatge di Barcellona, che ha organizzato la più completa retrospettiva mai dedicata in Spagna alla sua opera. La mostra «Contes possibles» (Racconti possibili), a cura di Jean-François Chevrier, fino al 13 ottobre riunisce 37 dei suoi celebri tableaux fotografici, realizzati tra il 1980 e il 2023, quasi tutti di grandi dimensioni, alcuni retroilluminati e altri, i più recenti, stampati. «Mi interessa la composizione, non ragiono in termini di tecnica, semplicemente utilizzo quella che mi sembra più adatta al mio scopo. Realizzo lightbox da quando nel 1977, uscendo dal Museo del Prado, vidi per la prima volta la pubblicità luminosa alle fermate degli autobus. Non li ho abbandonati, ma sia il risultato sia il processo mi hanno un po’ stancato, così dal 2000 ho iniziato con le stampe digitali. La qualità dell’immagine è importante, e lo è anche come invecchiano le opere, per questo ultimamente prediligo la stampa digitale, più pratica e permanente», spiega l’artista, che nel suo laboratorio di Vancouver segue personalmente tutto il processo.
Gentile e disponibile, Wall è pronto a spiegare per l’ennesima volta l’essenza delle sue opere e a rispondere a tutte le domande, anche se alcune risposte sono accompagnate da un’ombra di ironia. «La vita di un artista, da dove viene, da quale Paese o da quale cultura, non importano. L’importante è quello che fa, afferma, per evitare di cadere negli aneddoti. Io sono un fotografo, non un cacciatore di immagini. Pianifico quello che posso pianificare, approfitto di ciò che mi attrae, non seguo un metodo specifico, semplicemente faccio tutto ciò che è necessario per ottenere il risultato che cerco. Ogni fotografia richiede il suo percorso e il suo tempo».
Nell’era dell’immagine infinitamente riproducibile, quando tutti i comuni mortali sono diventati reporter della propria vita e pubblicano senza sosta immagini sui social, sembra incredibile parlare con un artista che dal 1978 ha prodotto solo 200 immagini. «Questo non implica che a volte per ottenere la fotografia che voglio debba eseguire migliaia di scatti», puntualizza l’artista, noto per realizzare pochissime copie di ogni opera. Quello che non tutti sanno però è che di ogni fotografia conserva un’edizione che può esporre secondo gli accordi stabiliti con le istituzioni o i collezionisti che l’hanno acquistata. Questo gli consente di tenere un’esposizione in un centro gratuito come la Virreina, che per accogliere una mostra di Wall alle condizioni consuete dovrebbe ipotecare tutto il budget dell’anno (e probabilmente non basterebbe neanche). «In questi anni mi sono guadagnato il diritto a esporre dove voglio», dichiara l’artista, che ha favorito in tutti i modi Valentí Roma, direttore del centro, per portare a termine questo ambizioso progetto.
Wall ha concepito questo tour europeo, iniziato alla Fondation Beyeler di Basilea con una mostra a cura di Martin Schwander e Charlotte Sarrazin, come una serie di esposizioni del tutto autonome tra loro in quanto a curatela, formato, tematica e budget, che condividono un certo numero di opere in modo da ridurre notevolmente le spese. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di opere di grandi dimensioni che possono arrivare a pesare 400 kg e a seconda del proprietario raggiungere elevatissimi costi assicurativi. Per esempio, a Barcellona, la seconda sede di questo tour atipico, sono esposte 6 opere che provengono da Basilea e 4 andranno poi alla White Cube di Londra. Seguono il Maat di Lisbona e le Gallerie d’Italia a Torino, dove l’artista esporrà nell’autunno 2025.
La relazione tra Wall e Barcellona viene da lontano: l’ha conosciuta da turista negli anni ’70 e ci è tornato nel 1999 per una committenza della Fundació Mies van der Rohe, sfociata in «Morning cleaning». Ora ha questa retrospettiva e fino al 21 gennaio 2025 partecipa a «Una ciutat desconeguda» (Una città sconosciuta), una collettiva al Museu d’Art Contemporani de Barcelona (Macba), a cura di Jorge Ribalta, con un’immagine inedita. «Escludendo Vancouver, la mia città, e Los Angeles, non ripeto mai una fotografia dello stesso luogo, ma con Barcellona è stato diverso, sono già due», spiega Wall, che ha scattato la seconda fotografia in uno studio de L’Hospitalet de Llobregat, località della cintura barcellonese, ma che in realtà immortala l’anima del Carmelo, il quartiere operaio reso celebre dal romanzo di Juan Marsé Ultime sere con Teresa.
Ogni fotografia in mostra ha la sua storia, ma è sufficientemente aperta da permettere al visitatore di creare la propria interpretazione, così come di esplorare le possibili fonti d’ispirazione di Wall che non ha mai nascosto i suoi legami con il cinema, la letteratura e, naturalmente, la storia dell’arte. «Rappresento la vita moderna con situazioni non reali, bensì frutto della possibilità o dell’immaginazione, come l’immagine del bambino che cade dall’albero», continua l’artista, che combina un linguaggio realista, vicino al documentario, con una visione onirica e fantastica; come l’immagine della donna che rammenda un calzino circondata dai libri preziosi di una biblioteca infinita di una delle sue fotografie più recenti, «Maquette», del 2023. Il percorso, che attraversa quattro decenni di creazione, in un allestimento che evita il classico approccio cronologico o tematico, comprende un unico oggetto, l’enigmatico Odradek, un’entità magica e metaforica, ispirata a un racconto di Franz Kafka, che dal 1994 lo accompagna ovunque. «Fotografo situazioni quotidiane che non sono reali, ma potrebbero esserlo», conclude.