L’incontro con Dominique White, vincitrice della nona edizione del Max Mara Art Prize for Women (2022-24), avviene quando l’artista britannica (Londra, 1993) è ormai giunta alla fase finale della sua residenza di sei mesi, un’esperienza fondamentale per chi si aggiudica l’ambito premio biennale a sostegno della creatività femminile, promosso fin dal 2005 dal brand di moda italiano in collaborazione con la Whitechapel Gallery di Londra e la Collezione Maramotti di Reggio Emilia.
Come di consueto, le opere realizzate durante la residenza verranno presentate in entrambe le sedi espositive, rispettivamente dal 2 luglio al 15 settembre a Londra e dal 26 ottobre a Reggio Emilia, mentre le fasi preliminari si sono svolte in Italia, per consentire all’artista di esplorare alcuni luoghi di ispirazione, di studio, di documentazione e di lavoro, in compagnia di tutor esperti.
Nel cuore di Todi, ai piedi della scalinata che porta alla maestosa facciata gotica della chiesa di San Fortunato, accanto al portone di palazzo Valenti-Fredi incontriamo l’artista per una preview sulle opere che presto spedirà a Londra. Lo studio in cui sta lavorando è pieno di vele rovinate, cordami e reti che lei stessa sta intrecciando, polvere di carbone, stampi ancora freschi. Sulla parete sono appesi fogli di appunti, schizzi, riferimenti letterari, fotografie che ricordano le precedenti tappe della sua residenza: Agnone, in Molise, dove nella Pontificia Fonderia di Campane Marinelli ha visto il bronzo delle campane medievali squarciato dalla potenza del fulmine; Palermo, dove Giovanna Fiume, docente di Storia Moderna all’Università, l’ha accompagnata a scoprire luoghi e testimonianze legati alle migrazioni e alla schiavitù; a Genova, dove ha visitato cantieri e musei con Massimo Corradi e Claudia Tacchella, esperti in scienze delle costruzioni navali; a Milano, dove White, che ama la manualità, ha fatto un master intensivo sulla tecnica della cera persa presso la Fonderia Artistica Battaglia.
Todi è l’ultima stazione di un viaggio intenso, il luogo in cui l’artista sta trascorrendo due mesi di lavoro e rielaborazione. Lo studio è ingombro di relitti, segni di un naufragio che invadono il pavimento della stanza per sondare l’effetto dell’installazione che presto occuperà altri luoghi: scheletri di ferro piegato, cordami impigliati, frammenti di boe sgretolate, gesso, carbone, residui difficilmente identificabili di identità che hanno conosciuto il viaggio di speranza e la tragedia. Niente sembrerebbe più lontano da questo quieto angolo dell’Umbria, dove il mare non arriva eppure l’odore di mare si sente, forse perché tutti i materiali vi sono stati immersi per un mese affinché si rovinassero un po’ prima di essere installati provvisoriamente in questo spazio appartato.
Dominique White ha da poco superato i trent’anni ed è al momento di svolta della sua carriera, una fase che il Max Mara Prize ha scelto di sostenere, offrendole la possibilità di approfondire le tematiche delle quali si interessa da tempo e di sperimentare le tecniche della lavorazione dei metalli. Nata a Londra da una famiglia di origine caraibica, dopo la Brexit vive tra Marsiglia e l’Essex, ma ama lavorare assecondando un nomadismo che è per lei anche tramando della memoria di migrazioni e segno della sua volontà di fare dell’arte una manifestazione politica per denunciare la stretta interconnessione di colonialismo, razzismo e accumulo capitalista della ricchezza.
La storia della schiavitù e della diaspora africana causata dal commercio triangolare che ha reso ricca l’Europa attraverso lo sfruttamento di milioni di africani, la coscienza della blackness, il sovvertimento di concetti come quello di «idrarchia» (parola coniata nel Seicento per indicare l’idea che il mare sia la base di sistemi di potere) e il richiamo all’«afrofuturismo» (corrente di pensiero nata in ambito musicale che esplora gli incroci fra la diaspora africana e la tecnologia) sono il background teorico del suo lavoro e una fonte di ispirazione diretta per quell’idea di precarietà degli equilibri, di fragilità, di senso del dramma che rende le sue opere poetiche pur nella durezza dei temi affrontati, restituiti attraverso la scabra integrazione di elementi di ferro con materiali effimeri.
«Il ferro è uno degli elementi che connotano una nave di schiavi e sul piano storico rappresenta la presenza della blackness in relazione alla schiavitù. A Todi ho avuto l’occasione di raccogliere tutto quello che ho visto in un senso più pratico, perché per me il lavoro manuale è importante quanto quello teorico, è un altro modo di pensare; l’esperienza di lavorare il metallo con il fuoco mi ha fatto comprendere come distruggere la pelle di un metallo possa aprire delle possibilità per la sua longevità», ha affermato Dominique White dopo aver sperimentato in un’azienda specializzata, la Metalserbatoi di Torgiano, tante fasi di lavorazione, dalla progettazione 3D al taglio a fiamma, dalla piegatura all’incudine per la forgiatura sotto la guida dello scultore Michele Ciribifera (per trent’anni assistente di Beverly Pepper), che le ha fatto da tutor.
«Avere sei mesi da dedicare a un progetto e sentirsi totalmente immersi nella ricerca è stato straordinario e questa esperienza lascerà a lungo il segno nel mio lavoro; ma non è stato un momento di calma, io amo il caos ed è nel caos che cresco», ha aggiunto l’artista, nelle cui riflessioni l’idea di «immersione» torna di frequente non solo come pratica creativa, ma soprattutto perché per lei questo è davvero stato un viaggio in profondità nella memoria e nelle storie, base per una ricerca creativa che però parla di futuro, attingendo dagli eventi tragici del passato un nutrimento per alimentare la coscienza e l’impegno.
Il titolo del progetto scelto da Dominique White, «Deadweight», significa letteralmente «peso morto», ma rimanda anche a un concetto specifico di ambito nautico che indica il peso massimo tollerabile per il galleggiamento. Così la sua mostra sarà epica ma leggera, antimonumentale, realista ma non del tutto pessimista: «Mi piace rompere le regole, per questo penso a un’esposizione di opere in decadimento, che stiano per sbriciolarsi e andare in pezzi, per ispirare un’idea di ribellione, di speranza. Non voglio necessariamente dire che sarà una speranza con la S maiuscola, che si possa credere in un’idea di futuro positivo e radioso, ma semplicemente credo nell’idea che ci sia un futuro che deve nascere dalle ceneri del presente, e con questo vorrei dare un po’ di speranza alla gente».