Finalmente una mostra che fa luce su una verità scomoda spesso contraffatta dal mito e dall’idealizzazione: che il Bauhaus, la più grande scuola d’avanguardia del XX secolo, sia stata solo osteggiata dal nazionalsocialismo non è vero in assoluto, così come non si può più dire che la maggior parte dei suoi artisti, tra studenti e professori, sia stata ostracizzata dal regime; al contrario, in moltissimi riuscirono in un modo o nell’altro a farvi carriera, dentro e fuori il partito e in un certo senso poco importò che l’istituzione in sé fosse stata dichiarata degenerata.
La mostra «Bauhaus e nazionalsocialismo», a cura di Anke Blümm (Klassik Stiftung Weimar), Elizabeth Otto (Università di Buffalo) e Patrick Rössler (Università di Erfurt), si concentra proprio sul lato più oscuro della storia della scuola nata in città nel 1919 e sull’intreccio tra l’istituzione artistica tra le più celebri dell’età moderna e il nazismo a partire dalla salita al potere del suo leader, nel 1933. Dal 9 maggio al 15 settembre in tre sedi cittadine, il nuovo Bauhaus Museum fresco di apertura per il centenario, il recentemente restaurato Neues Museum e lo Schiller Museum, viene raccontata una storia alternativa a quella imposta negli ultimi cent’anni esaminando un Bauhaus più vicino al vero, privato di mitizzazioni e leggende.
Su una superficie di oltre mille metri quadrati, circa 450 oggetti d’arte e di design (da Franz Ehrlich al famoso sistema di contenitori modulari in vetro «Kubus» di Wilhelm Wagenfeld) provenienti da collezioni private e musei europei e statunitensi consentono di conoscere quest’altra verità. Troppo a lungo il Bauhaus è stato unicamente considerato l’antitesi al nazionalsocialismo, la scuola libera i cui maestri e fondatori furono contrari al regime: recenti studi stanno facendo luce su un’altra storia servendosi di un metodo interpretativo meno unilaterale. Se, come detto, alcuni tra gli studenti e i docenti furono perseguitati dai nazisti (ed eliminati nei campi di concentramento perché ebrei), molti furono quelli che invece trassero profitto dal regime: le loro carriere e parabole di vita tracciano un quadro multiprospettico della storia culturale, politica e sociale tedesca nella prima metà del XX secolo.
La prima parte della mostra, al Neues Museum, fa luce sui conflitti artistici e politico-sociali iniziati con la fondazione della Scuola a Weimar e proseguiti nelle altre due sedi di Dessau e Berlino; la seconda al Bauhaus Museum si concentra sulla confisca dell’arte degenerata, nel 1937, e sulla campagna che l’aveva preceduta a Weimar. Già nel 1930, le autorità avevano ordinato la rimozione di oltre 70 opere di artisti come Lyonel Feininger (in mostra il dipinto «Gelmeroda VIII», 1921, dal Whitney Museum of American Art di New York) e Paul Klee (l’acquarello «Piante morenti», 1922) dal Museo del Castello di Weimar. Nel 1937 furono confiscate più di 450 opere: una perdita culturale per le collezioni di Weimar che si fa sentire ancora oggi. La terza e ultima parte, «Vivere nella dittatura 1933-45» allo Schiller Museum, è dedicata ai membri del Bauhaus e alle loro biografie: molti «Bauhäusler» furono costretti all’esilio, almeno 21 studenti morirono nei ghetti e nei campi di concentramento, ma la maggior parte di loro non fu bersaglio del regime nazista, anzi, parteciparono a mostre di propaganda e fiere di design e progettarono manifesti cinematografici, mobili, oggetti per la casa e persino busti di Hitler.