Quale rapporto Michelangelo intrattenne con il potere? È questo il taglio della mostra allestita dal 18 ottobre al 26 gennaio 2025 nel Museo di Palazzo Vecchio, oggi sede del Comune e, nei secoli, del governo fiorentino, repubblicano o mediceo. «Michelangelo e il potere», a cura di Cristina Acidini e Sergio Risaliti, riunisce una cinquantina di opere, tra sculture, dipinti, disegni, lettere autografe e calchi in gesso (in un allestimento progettato da Guido Ciompi, in collaborazione con l’architetto Gianluca Conte dello studio Guido Ciompi & partners) per mettere in luce in quale dialettica si sia posto il Buonarroti nel confronti di committenti, regnanti ma anche papi, fin da ragazzo: «Alla tavola di Lorenzo il Magnifico, alla quale il Buonarroti giovanissimo fu accolto, c’erano anche due futuri papi della dinastia medicea, Leone X (allora Giovanni) e Clemente VII (Giulio), nota Acidini. Un saggio di Giorgio Spini, ripubblicato in catalogo, sviluppa molto bene questi temi e abbiamo voluto contestualizzare le opere specifiche». E coi Medici Michelangelo continuerà ad avere rapporti, pur esprimendo le sue posizioni e non volendo mai tornare a lavorare a Firenze, dopo il loro ritorno al potere, nonostante le insistenze di Cosimo I: lascerà infatti incompiute la facciata di San Lorenzo, la Sagrestia Nuova e la Biblioteca Laurenziana, evocate in mostra da alcuni studi progettuali.
Emblema del credo politico di Michelangelo è il «Bruto», il cui ritorno a Palazzo Vecchio è uno dei fulcri della mostra: eseguito su commissione di fuoriusciti repubblicani, o Ridolfi o Giannotti, «è proprio un gesto politico», sottolinea Acidini. «È un j’accuse!», aggiunge Risaliti. E se Bruto è colui che uccise il tiranno come Lorenzino de’ Medici fece con il corrotto Alessandro de’ Medici (in seguito i Medici acquisteranno quel busto, cercando di leggere nell’incompiutezza un pentimento politico dell’artista), anche il «David», pur scolpito per il Duomo nel 1504, sarà destinato a simboleggiare a Palazzo Vecchio il potere repubblicano: il giovane virtuoso che con la sola fionda uccide il gigante Golia; senza dimenticare poi, ai tempi dell’assedio di Firenze nel 1529-30, le mura edificate dal Buonarroti per difendere la città repubblicana, di cui sono in mostra quattro disegni. In altri fogli è evocata la Battaglia di Cascina per Palazzo Vecchio (mai realizzata) e la Basilica di San Pietro a Roma. «Michelangelo è però critico anche nei confronti della città eterna, spiega Acidini. “Qui si fa elmo di calici e spade” scriverà infatti nelle “Rime” riguardo la Roma guerriera».
«Ricostruire la complessità del pensiero di Michelangelo, in ambito politico e religioso è un atto contemporaneo», nota Risaliti, ricordando l’influenza di Girolamo Savonarola prima e di Niccolò Machiavelli in seguito e sottolineando come la mostra ponga la figura di Cosimo I, di solito esaltata per la sua magnificenza, anche sotto un’altra luce. Notevole la quadreria di ritratti di personaggi, Savonarola di Fra’ Bartolomeo, Pier Soderini attribuito a Ridolfo del Ghirlandaio, Leone X di Giuliano Bugiardini, Cosimo I in armatura di Agnolo Bronzino e molti altri ancora. «Tutte le effigi dei potenti, nota Risaliti, ruotano come una galassia intorno all’astro di Michelangelo», il cui ritratto, dipinto dall’amico Bugiardini, è infatti posto al centro della grande parete. In questo contesto alcune opere, troppo importanti per essere spostate dalla loro sede, sono presenti in gesso, come la «Pietà» vaticana o due «Prigioni», donati a Roberto Strozzi, antimediceo. Due sculture inedite potrebbero, secondo Risaliti, «aprire una stagione di nuovi studi. Non abbiamo voluto presentarle come opere di Michelangelo, ma certo sono affini nella morfologia a quelle ricordate dalle fonti, dove sono al centro di aneddoti sulla gioventù di Michelangelo»: una «Testa di fauno» e un «Amorino dormiente», che giace riverso su un fianco (e non sul dorso come altri identificati con l’originale perduto), postura che sembrerebbe già evocare il «contrapposto» tipico dell’artista.