Dal 30 ottobre al 15 febbraio 2024, la mostra «Alighiero e Boetti. Raddoppiare dimezzando» illustra, in un circuito essenziale di opere, la filosofia operativa dell’artista (Torino, 1940-Roma, 1994), nel trentennale della sua morte. Curata da Marco Tirelli, pittore e presidente dell’istituzione sita in Palazzo Carpegna, la mostra trova il suo seme proprio nel titolo. La matematica del raddoppio e i processi di moltiplicazione sono parte integrante del pensiero di un uomo che si sdoppiò già nel nome, firmandosi Alighiero e Boetti. L’opera, in mostra, «Gemelli» (1968), fotomontaggio nel quale l’artista torinese, dal ’72 romano, si autoritrae rappresentandosi due volte e tenendosi per mano, è il primo affondo in questa riflessione sulla dualità dell’essere, tra sé e altro da sé, tra pubblico e privato (come nell’opera «Shaman Showman»). «Nessuna opera di Alighiero si esaurisce in sé stessa, nel suo corpo fisico o nella data in cui è stata realizzata, ma apre sempre a nuovo senso, ad altro da sé, afferma Tirelli. Le sue opere sono proteiformi, si trasformano sotto il nostro sguardo. Inquietano e rassicurano allo stesso tempo». Così è, per esempio, con «Storia naturale della moltiplicazione» (1975), un grande polittico formato da undici carte quadrettate, su cui si dispiegano segni in crescita quantitativa progressiva, dal vuoto alla saturazione. «Per Boetti era importante stabilire un sistema che, crescendo su sé stesso, generava condizioni ambigue di caos ordinati, continua Tirelli. Un artista come Alighiero ha fondato una nuova e inaudita idea del classico, in cui il rigore, la norma, i modelli e le regole fossero sempre instabili, autogeneranti e proliferanti, sia pure nella loro fissità di oggetti immobili».
Il Salone d’Onore di Palazzo Carpegna, riconfigurato per l’occasione da un’importante struttura allestitiva, ospita l’opera postale «De bouche à oreille», lavoro di dimensioni colossali, creata nel 1992-93, un anno prima della morte dell’artista. Esposta raramente, l’opera costituisce una summa del suo lavoro precedente. Realizzata con la collaborazione delle Poste francesi, de Le Magasin - Centre National d’Art Contemporain di Grenoble e del Musée de la Poste, la composizione si articola in undici serie, ognuna delle quali formata da due elementi: le buste e i disegni (506 buste affrancate e timbrate e 506 disegni a tecnica mista). Con l’arte postale, Boetti intendeva sondare le possibilità di una relazione umana che attraversa lo spazio, per attingere a idee di universalità.
In «Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969», nella versione del 1992 dell’opera realizzata nel 1969, l’artista si autorappresenta sommariamente, mediante nuclei di cemento a presa rapida stesi al suolo, su cui si è posato un modello di farfalla cavolaia: un’allusione all’io che supera il limite corporeo, secondo un principio di sovraindividualità esplorato da Boetti in molte opere e per tutta la vita. Nel porticato borrominiano, il percorso biografico e artistico trova compimento con una delle ultime opere realizzate, ancora un autoritratto, ma questa volta in forma di statua bronzea. Qui si vede l’artista sollevare un tubo che getta acqua sulla sua testa. Il fatto è che una resistenza elettrica interna al metallo, portando la scultura a un’elevata temperatura, determina l’immediato trasformazione del liquido in vapore. È parafrasi del processo creativo che tormenta il cervello, nonché rappresentazione fisica della grande àncora di salvezza che ha l’uomo, l’immaginazione.