Veduta della mostra «Tradu/izioni d’Eurasia Reloaded» al Mao-Museo d’Arte Orientale di Torino

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Veduta della mostra «Tradu/izioni d’Eurasia Reloaded» al Mao-Museo d’Arte Orientale di Torino

Il Giardino delle tinture di Yto Barrada al Mao di Torino

L’artista franco-marocchina ha scelto opere della collezione islamica del Museo di Arte Orientale torinese «per tradurle in griglie di proporzione-percezione cromatiche utilizzando una lettura della teoria dei colori». Insignita del Mario Merz Prize in autunno avrà una personale nell’omonima Fondazione

Fino al primo settembre il Mao Museo d’Arte Orientale di Torino presenta «Tradu/izioni d’Eurasia Reloaded», riallestimento, attraverso una rinnovata selezione di ceramiche, tessuti, metalli e manoscritti, di «Tradu/izioni d’Eurasia», mostra con cui il museo torinese celebra i 700 anni dalla morte di Marco Polo.

Fra le novità più rilevanti del nuovo allestimento, oltre a numerosi importanti prestiti dagli Uffizi, dalla Biblioteca Laurenziana di Firenze, dai Musei Civici di Bologna, dal Museo della Ceramica Duca di Martina di Napoli, ci sono le opere site specific dell’artista franco-marocchina Yto Barrada (Parigi, 1971), giunta a Torino su invito di Davide Quadrio, direttore del Mao, per partecipare a una residenza che la portasse a immergersi nelle collezioni del museo, quelle esposte e quelle custodite nei magazzini. Da questo dialogo sono nate una serie di opere presentate proprio nella mostra «Tradu/izioni d’Eurasia Reloaded», un progress che nel corso dei mesi modifica l’assetto espositivo degli spazi pubblici coinvolgendo via via diversi artisti contemporanei internazionali in un dialogo tra passato e presente. Nel frattempo, l’artista è stata anche insignita del Mario Merz Prize, che dal prossimo 28 ottobre la vedrà protagonista nella Fondazione torinese di una grande mostra personale.

Yto Barrada dipinge con stoffe, declina campiture e sfumature con pratiche di tintura antiche e sapienti, che nascono in un laboratorio alchemico in forma di atelier botanico a Tangeri, la città delle sue radici, lei, franco-marocchina, che vive a New York ma torna spesso nella sua terra. Una lunga ricerca partita nell’ambito della botanica, dall’interesse per le palme, gli iris indigeni di Tangeri, le erbacce e l’incolto che nascono spontaneamente ai margini, e proseguita nello studio dei metodi di estrazione dei pigmenti naturali e della tintura dei tessuti, ispirandosi anche alle tecniche messe a punto da William Morris nell’Inghilterra dell’Art and Crafts e nel suo testo The Art of Dyeing del 1889.

Un luogo che ha battezzato «il giardino delle tinture» (ispirato al famoso giardino che l’artista dadaista Hannah Höch realizzò nella sua casa di Berlino dalla fine degli anni Trenta, dove creava collage e dipinti, coltivava frutta e fiori), che nella città di Tangeri costituisce il fulcro di tutti i suoi progetti multidisciplinari. La sua, infatti, è una pratica nella quale si mescolano fotografia, cinema, installazioni e libri, con una grande attenzione agli archivi, sviluppata sull’idea di comunità. Un modello di collaborazione, una messa in comune di conoscenze ed esperienze che ha originato anche la nascita, nel 2007, della Cinémathèque de Tanger, un centro culturale diventato un’istituzione storica, attorno a cui si riunisce la comunità marocchina per celebrare il cinema locale e internazionale. Abbiamo incontrato l’artista.

Yto Barrada

Il Mao è un enorme archivio di geografie, tempi e culture, in forma di manufatti, opere e documenti, dove i confini tra le dimensioni si annullano, si fondono in una visione unica, complementare e stratificata. Com’è stato il suo incontro con il Museo e quale il processo di dialogo e sviluppo del lavoro?
Quando ho ricevuto per la prima volta l’invito da Davide Quadrio, era un periodo piuttosto intenso per alcuni impegni precedenti e scadenze: avevo una mostra imminente al MoMA PS1 di New York, un’altra alla Pace Gallery di Londra e la costruzione di una nuova tintoria a Tangeri. Così ho deciso di trovare altri modi per lavorare in modo diverso e per prendermi il tempo necessario perché volevo costruire con calma un nuovo corpus di opere. Ho ripreso in mano un progetto che avevo lì, dormiente, basato sul libro Color Problems: A Practical Manual for the Lay Student of Color scritto nel 1901 da Emily Noyes Vanderpoel, una vera pioniera, con una visione più simile al Minimalismo che all’epoca Vittoriana, che documentava i colori con griglie di analisi cromatica. Lo scambio con il Mao è iniziato partendo dalle immagini delle opere della collezione islamica, con l’idea di scegliere alcuni oggetti e «tradurli» in griglie di proporzione/percezione cromatiche utilizzando una lettura della teoria dei colori. Poi, il contesto politico ha influenzato un processo di profonda riflessione. Sei mesi di morte e distruzione di massa a Gaza, di demolizione da parte di Israele di tutte le forme di vita civile ma anche di decine di siti del patrimonio, tra cui musei e archivi. Guardare gli eventi, giorno dopo giorno, è stato davvero straziante. È stato difficile pensare ad altro ed è il motivo per cui una lenta e nuova ecologia del fare con il Mao e con il mio studio di New York ha assunto un senso speciale in queste circostanze.

Ha vinto il Premio Mario Merz: sta già lavorando alla sua personale che si terrà il prossimo autunno nella Fondazione Merz?
Quando mi è stato assegnato il Premio Mario Merz, pensavo si trattasse del Merz dadaista di Kurt Schwitters! Durante il mio soggiorno ho visitato l’imponente edificio torinese della Fondazione e ho parlato con il team per presentare nuovi lavori. Non vedo l’ora di tornare in autunno, sono felice di aver avuto la possibilità di realizzare due mostre nella stessa città, così da poter costruire connessioni sia con gli spazi artistici sia con le loro comunità specifiche. Sarà un progetto pieno di sorprese. Ci saranno tanti collage e poi ho trovato manufatti, film, sculture e tessuti. Ho cercato di individuare una sorta di pratica automatica del fare arte, un modo più sistematico di creare colori ispirandomi alla tradizione del gruppo letterario Oulipo (acronimo di Ouvroir de littérature potentielle, ossia Laboratorio di letteratura potenziale fondato in Francia nel 1960 da un gruppo di matematici appassionati di letteratura e letterati cultori delle scienze esatte, Ndr), al loro gioco creativo che procedeva basandosi su un metodo strutturale di regole.

Può raccontarci della sua ricerca sui colori, sul loro processo di creazione e i loro significati?
Il mio viaggio nell’arte e nella scienza della creazione di colori naturali è iniziato perché questa antica tradizione si collocava miracolosamente all’incrocio di molti dei miei campi di ricerca: archivi, mestieri perduti, trascrizioni nascoste, decolonialità. Sono una collezionista di tessuti e la materialità e l’antropologia del colore mi hanno sempre affascinata. Ho iniziato a studiare e a creare colori circa dieci anni fa, quando mi sono trasferita da Tangeri a New York. Ho piantato un giardino di tintura e un ritiro eco-femminista per artisti nella mia città natale, che chiamiamo «La Nave Madre»: è un luogo dove si possono trovare la maggior parte delle fonti di tintura, ma fa parte della proprietà anche una foresta, sovrastante l’oceano, che offre e arricchisce la possibilità di produrre colori.

Olga Gambari, 25 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

Il Giardino delle tinture di Yto Barrada al Mao di Torino | Olga Gambari

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