Una delle opere di Ghada Amer esposta al Mucem

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Una delle opere di Ghada Amer esposta al Mucem

Ghada Amer: ritorno in Francia via Marsiglia

L’artista francese di origine egiziana, che si definisce una pittrice che utilizza acrilici o oli, ma anche filo da ricamo, è protagonista di un’ampia retrospettiva in tre sedi

Fino al 16 aprile Marsiglia ospita la prima retrospettiva in Francia della pittrice franco-egiziana Ghada Amer (1963). Curata da Philippe Dagen, storico dell’arte e critico del quotidiano «Le Monde», e da Hélia Paukner, conservatrice responsabile del polo di arte contemporanea al Mucem di Marsiglia, la mostra si struttura in tre sedi: il Mucem (Fort Saint-Jean), il Centre de la Vieille Charité e il Frac Provence-Alpes-Côtes d’Azur (fino al 26 febbraio). Ne parliamo con l’artista. 

Lei è nata al Cairo e per i primi dieci anni ha vissuto alternativamente in Libia e in Marocco. Che visione ha di questi due Paesi?

Ho trascorso l’infanzia in Egitto durante la guerra con Israele, quindi è stato un periodo difficile. Cera sempre la possibilità di essere bombardati. Se penso al Cairo di allora, ho l’impressione che tutto fosse in bianco e nero, soprattutto rispetto alla luce che ho scoperto in Francia qualche anno dopo. Bombardavano persino le scuole. Nei rifugi ci venivano dati fogli su cui disegnare e questo mi ha permesso di dimenticare, di essere meno ansiosa. In Libia, l’unica cosa che ricordo è che quando il primo settembre 1969 ci fu il colpo di Stato di Muammar Gheddafi, i soldati vennero a chiedere a mio padre, che era un diplomatico, di avvertire Gamal Abdel Nasser (allora presidente dell’Egitto, Ndr) della presa di potere. La Libia era una colonia italiana e Gheddafi era molto vicino a Nasser. Anche per il Marocco è stata dura. Un uomo ha cercato di rapire me e mia sorella offrendosi di andare a comprarci del cioccolato. Non abbiamo mai saputo di che cosa si trattasse...

Torna spesso in Egitto?

Siamo partiti nel 1974 e sono tornata per la prima volta nel 1980. Oggi per me rappresenta «casa». Poco prima della Primavera araba del 2011 ho comprato un appartamento in centro al Cairo da usare come studio. A causa della rivoluzione non è stato possibile farlo, però l’appartamento l’ho tenuto. In quel periodo ho smesso di produrre in Egitto, poi ho ricominciato per preparare la mostra al Mucem, con l’installazione «Salon Courbé».

Che cosa ricorda della Francia, dove è arrivata nel 1974?
Quando siamo arrivati a Nizza, il mio primo pensiero è stato che era un posto tranquillo rispetto a tutto ciò che avevo sperimentato prima. E anche molto luminoso. Ero felice, finché a scuola non mi hanno chiamata «araba». Nella mia classe c’erano due «fazioni»: i bambini che mi hanno attaccata e quelli che mi hanno difesa, con i quali mantengo ancora legami di amicizia.

Allepoca era consapevole della modernità della pittura prodotta in Egitto e che è stata presentata in una mostra al Centre Pompidou di Parigi nel 2016-17 (Arte e libertà. Rottura, guerra e surrealismo in Egitto (1938-1948)», Ndr)?
Niente affatto. Ho un background molto occidentale. Pensavo che l’arte dovesse essere europea e denigravo quella egiziana. A casa dei miei genitori l’arte non esisteva. Non sapevo nemmeno che cosa significasse essere un artista. Copiavo i fumetti di Lucky Luke, ma i miei genitori volevano che prima finissi i compiti. In Egitto non erano previsti voti nelle lezioni di arte, mentre in Francia sì. Ci hanno spiegato la prospettiva con due cubi, ma io riuscivo a vedere solo due quadrati... e non l’ho trovato molto interessante. Ho dovuto anche lavorare sul colore, senza fare macchie, mentre in Egitto questo non veniva insegnato. Così, in quel periodo mi sono allontanata dall’arte.

Che cosa l’ha spinta ad andare a Villa Arson, dove poi ha studiato?
A Nizza avevo visto i manifesti di Henri Matisse, Pablo Picasso e Marc Chagall. Li trovavo bellissimi, senza sapere che cosa fossero. Mio padre ci portava nei musei per aiutarci a capire la storia e la cultura generale. Le «Madonne con il Bambino» e i dipinti con battaglie mi annoiavano, perché non ci vedevo nulla di bello. Preferivo Fernand Léger. A scuola ero portata soprattutto per le materie scientifiche. Per ottenere un punteggio più alto alla maturità scelsi l’arabo e lo sport e chiesi di seguire le lezioni di arte come uditrice, perché così non ero soggetta alle valutazioni. Un giorno l’insegnante mi disse che non sarei mai stata un’artista, ma a me non importava. Dopo la maturità sono caduta in una grave depressione. Dovevo andare all’Università per studiare matematica e fisica, ma ero troppo giovane, non ce l’avrei fatta. L’unica cosa che mi calmava era disegnare, cosa che ho fatto per un anno. Mio padre allora mi disse che sarei potuta diventare un architetto. C’era una scuola di architettura ad Antibes, ma lui non voleva che lasciassi Nizza e poco dopo ha scoperto l’esistenza del Dipartimento Ambiente di Villa Arson. Pur non avendo superato il concorso, andai comunque a visitare la scuola e quel posto mi risollevò il morale. Mentre la sera mi preparavo nuovamente per il concorso a Villa Arson, mio padre mi chiese di iscrivermi contemporaneamente alla Facoltà di Lettere in Lingue straniere applicate (Lea). Dopo due anni di studio, voleva che andassi in Inghilterra e in Germania per imparare le lingue e così, a vent’anni, sono arrivata a Cardiff. Ero una punk, lì avevo trovato corsi d’arte ed era tutto fantastico! Poi, nel 1984, mio padre, che nel frattempo aveva terminato il dottorato, dovette tornare in Egitto. Ho conseguito il Master in Lea e ho superato il concorso di Villa Arson senza che lui lo sapesse.

Erano i grandi anni di Villa Arson. Ha ancora un legame con quel periodo?
Villa Arson cominciava a diventare una scuola pilota internazionale per l’arte e la ricerca. Il Dipartimento Ambiente non esisteva più e allora mio padre mi consigliò il Dipartimento di Comunicazione, che poi chiuse. Alla fine sono entrata nel Dipartimento di Arte. A Villa Arson c’era molto disaccordo tra alcuni professori e il direttore, Christian Bernard, che voleva davvero formare artisti. Ci mise a disposizione la sua biblioteca d’arte contemporanea e ci insegnò ad allestire mostre. Abbiamo lavorato senza limiti. Christian Bernard è stato un vero mentore per me. Coinvolse anche grandi artisti come Martin Kippenberger, Albert Oehlen, Maurizio Nannucci, Fred Sandback, Daniel Buren, Niele Toroni, Alighiero Boetti... Sono rimasta in contatto con gli artisti che hanno studiato lì contemporaneamente a me, in particolare Pascal Pinaud, Tatiana Trouvé, Philippe Ramette o Reza Farkhondeh, che è coinvolto nella mia mostra a Marsiglia.

Che cosa ricorda dell’Institut des Hautes Études en Arts Plastiques a Parigi, un’istituzione mitica e di breve durata dove ha poi studiato?
Era un luogo molto aperto. Jean-Hubert Martin, uno dei fondatori, voleva favorire l’incontro tra artisti affermati e giovani. La maggior parte di loro era europea, anche se alcuni provenivano dall’Africa, come me. C’erano anche donne iraniane, slovacche e jugoslave. Il tema del programma cambiava ogni anno. Quando lo frequentavo, era «Il centro e la periferia». E abbiamo discusso molto...

In quel momento, lei era e si definiva una pittrice. È stato difficile?
Certo che era difficile. Non era un’epoca per pittori. E non capivo perché la pittura fosse morta e, soprattutto, chi l’avesse uccisa! I tedeschi avevano Martin Kippenberger e Sigmar Polke, ma in Francia non era possibile. A Villa Arson i corsi erano particolarmente poco accoglienti per le pittrici. Mia sorella studiava negli Stati Uniti. Andai a trovarla e scoprii che al MoMA di New York la pittura non era morta. Quando sono tornata a casa, ho cercato le pittrici nei libri della biblioteca, ma non ne ho trovate e allora ho capito che la pittura era un lavoro da uomini. Al quarto anno ho trascorso un semestre a Boston, dove ho scoperto il lavoro di Jenny Holzer e Barbara Kruger: il femminismo era un tema attuale e la pittura era possibile. Tuttavia, mi fu assegnato un lavoro di scultura, ma senza un uomo che mi accompagnasse per gli aspetti tecnici, come invece accadeva a Villa Arson.

È stato il fatto di trovarsi a Boston a farle desiderare di trasferirsi a New York qualche anno dopo, nel 1996?
Non proprio. Sono tornata per terminare i miei studi a Villa Arson con Christian Bernard, perché il pensiero critico mi sembrava più forte lì che altrove, Stati Uniti compresi. Poi, nel 1996, ho deciso di trasferirmi a New York.

È stato lì o in Europa che Harald Szeemann ha scoperto il suo lavoro? Poi l’ha invitata alla Biennale di Venezia del 1999.
Credo sia stato a New York, dove ho presto partecipato a mostre, in particolare con Shirin Neshat, da Annina Nosei.

Il suo lavoro è attualmente oggetto di una grande retrospettiva a Marsiglia, in tre sedi, ognuna con un tono diverso. Al Mucem, a mo’ di preambolo, è esposta la sua prima scultura-giardino in arabo («A Woman’s Voice Is Revolution»). Ma questa pratica risale alla fine degli anni Novanta. In genere conosciamo i suoi dipinti ricamati, che hanno un carattere molto più intimo rispetto a un’opera in uno spazio pubblico. È un modo per invitarci a rileggere il suo lavoro?
La mia prima scultura-giardino risale al 1997. Jany Bourdais mi aveva invitata a esporre al Centre d’Art du Crestet, nella Vaucluse, ma al posto dei miei soliti ricami voleva che creassi un’opera all’aperto. Il paesaggio è così bello che non volevo rovinarlo. Non sapendo scolpire, ho cercato un equivalente per lo spazio pubblico di ciò che il ricamo è per lo spazio interno: il giardino. Pensavo davvero che Jany Bourdais avrebbe ritirato l’invito, invece ha trovato la mia idea fantastica! Ho disegnato un grande quadrato di margherite che i visitatori dovevano cogliere. Il mio obiettivo era che quanto rimaneva delle margherite disegnassero la sagoma di una coppia di innamorati. Tuttavia, «The Daisy Thinning Space» è stato un fallimento totale... Poi, nel 1998, la curatrice Rosa Martínez, a cui non piaceva la mia pittura, ha voluto che realizzassi un’opera all’aperto a Sagunto, in Spagna. Ho proposto di dipingere cactus, ma il Comune non ha mai consegnato i cactus. Questo progetto si è finalmente concretizzato nel 2018 presso il Centre de Création Contemporaine Olivier-Debré (Cccod) di Tours, grazie ad Alain Julien-Laferrière. Ogni anno Rosa mi invitava a creare un giardino nell’ambito delle sue mostre.

Come pensa che quest’opera venga percepita a Marsiglia?
Per me Marsiglia è l’Algeria, quindi è il luogo ideale per questa scultura da giardino in arabo. Ho iniziato a usare l’arabo nel mio lavoro nel 2011, dopo la Primavera araba. Il giardino per il Mucem è un gioco di parole di uno slogan scritto dalle donne sugli striscioni (sono parole così belle che le colleziono). Lo slogan deriva da un proverbio arabo che dice «La voce di una donna è una vergogna»; se si cambia una lettera in arabo, diventa «La voce di una donna è rivoluzione». In origine avevo progettato questo giardino con Neville Wakefield per il Desert X di AlUla, in Arabia Saudita, ma è stato rifiutato a causa della parola «rivoluzione». Ne ho fatto un altro nel 2021 in California, «Women’s Qualities».

Quanto ha partecipato alla progettazione della mostra?
Oltre, naturalmente, agli scambi con i due curatori, i precisissimi Hélia Paukner e Philippe Dagen, per la prima volta ho lavorato con un team di scenografi, Studio Matters. Al Mucem abbiamo optato per opere che creano un legame tra Oriente e Occidente, che corrisponde agli obiettivi del museo: sono allestite le mie installazioni su larga scala «Private Rooms», «Encyclopedia of Pleasure» e «Salon Courbé». Al Frac Provence-Alpes-Côte d’Azur è esposta la parte femminista di questo programma, intitolata «Witches and Bitches» («Streghe e puttane»), basata su un disegno che ho realizzato in collaborazione con Reza Farkhondeh: qui abbiamo appeso quadri e ricami. Infine, al Centre de la Vieille Charité sono esposte le sculture, un mezzo di cui mi sono innamorata nel 2010. Mi sono dedicata alla ceramica, lavorando contemporaneamente sull’astrazione e sulla figurazione. I bronzi esposti alla Vieille Charité provengono da lì. Attualmente sto realizzando sculture astratte in bronzo per la mia prossima mostra da Marianne Boesky a New York nel 2025.

Si è spesso ripetuto che lei usa il ricamo come la pittura, sia in relazione al colore sia agli effetti: i fili visibili a volte cadono dalla tela come colature. Ha reso omaggio a Josef Albers e alle «Ninfee» di Claude Monet. Il suo approccio alla ceramica o al bronzo è diverso dalla sua pratica pittorica?
A me sembra di lavorarci nello stesso modo in cui lavoro con i dipinti. I miei progetti nascono spesso per caso. Per la scultura in bronzo, ad esempio, è stato in occasione di un invito del Mathaf-Museo Arabo di Arte Moderna di Doha, in Qatar, dove non potevo mostrare nudi. Lo sceicco Hassan mi ha messo a disposizione un budget consistente per sviluppare un progetto sperimentale: prima ho scolpito in resina, poi la mia gallerista in Corea (Tina Kim Gallery, Ndr) mi ha commissionato cinque sculture in bronzo. La mia pratica scultorea è simile a quella pittorica. In effetti, sono molto interessata alla scultura policroma. I tre bronzi esposti alla Vieille Charité si basano su prototipi in ceramica colorata.

Lavora regolarmente in studio?
Lavoro in studio tutti i giorni dalle 9 alle 19 e cerco di non andarci nei fine settimana. In questo momento, per esempio, sto lavorando contemporaneamente a tre progetti: sto preparando una commissione pubblica per la città di Toronto, sto realizzando una grande scultura e sto pensando alla mostra che si terrà alla Marianne Boesky Gallery. Esporrò dipinti ricamati di grandi dimensioni, affiancati da coloratissimi bronzi astratti. La pittura sarà tradotta in non-pittura, in parte ricamo e in parte bronzo. Sto anche preparando una mostra di grandi bronzi a New York, prevista per il prossimo ottobre, e un progetto al Cairo, che sarà realizzato da persone che costruiscono tende nel deserto. Non ho molti assistenti: una persona in studio e altre due a distanza, con cui lavoro da trent’anni. Se ne ho bisogno, quando non riesco a farcela con la mia piccola squadra, assumo delle persone per ricamare.

È importante per lei esporre in Francia oggi?

Certo che lo è. Sono io che ho dato il via a questo ritorno in Francia. Dopo la mostra al Cccod, ho ripreso i contatti con Philippe Dagen, che è andato a trovare i responsabili del Mucem, e poi Hélia Paukner ha contattato le altre sedi, che si sono strette attorno al progetto. È interessante che questa retrospettiva si svolga a Marsiglia e non a Parigi. Alla fine, è forse più all’avanguardia.

Una delle opere di Ghada Amer esposta al Mucem

Anaël Pigeat, 11 gennaio 2023 | © Riproduzione riservata

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