Dal 21 novembre al 2 aprile al Metropolitan Museum of Art si tiene la mostra «Lives of the Gods: Divinity in Maya Art», che senza dubbio può essere considerata la più importante esposizione sulla cultura maya degli ultimi dieci anni negli Stati Uniti (dal 7 maggio al 3 settembre ’23 la mostra sarà al Kimbell Art Museum di Fort Worth in Texas). Non è una novità che il più importante museo degli Stati Uniti organizzi grandi esposizioni sulle culture «altre», dal momento che, tra i musei «generalisti» del mondo, vanta le più importanti collezioni di reperti «altri».
La mostra è curata da Joanne Pillsbury, responsabile del Dipartimento di Arte precolombiana del Met, da Oswaldo Chinchilla della Yale University e da Laura Filloy, curatrice associata del Met. Complessivamente si presentano circa 120 opere di formati e tipologie diversi, che consentono in particolare di mettere a fuoco la cultura del Periodo classico (300-900 d.C.).
Si va da stele monumentali in pietra a piccoli fischietti con figure antropomorfe, dalle incisioni su conchiglie agli stucchi con glifi in bassorilievo, dalle sculture di divinità e re alla pittura vascolare. Il percorso si articola in sette sezioni tematiche che presentano la collocazione nel cosmo delle diverse divinità e le loro vite (le divinità maya, come quelle delle altre culture della Mesoamerica, potevano invecchiare, morire e rinascere).
Si comincia presentando il ruolo degli dèi nella creazione del mondo e si prosegue raccontando le loro vicende e i loro rapporti con la natura e il mondo degli uomini. Nella mostra si mettono in evidenza opere poco note o che solo recentemente sono state al centro di studi adeguati. È il caso di capolavori che sono stati firmati o che sono stati attribuiti ad artisti che fino a pochi anni fa erano totalmente sconosciuti.
«Molte opere esposte non sono mai state presentate negli Stati Uniti, in particolare quelle scavate recentemente a El Zotz e Palenque, afferma Joanne Pillsbury. Presentiamo opere attribuite a sette artisti diversi e che ornavano le città maya delle foreste tropicali del Messico, del Guatemala e dell’Honduras. Solamente adesso si cominciano a capire le pratiche artistiche dei Maya e il ruolo degli artisti nelle corti dei sovrani.
Dopo che a partire dagli anni Ottanta gli specialisti hanno cominciato a identificare le mani degli artisti, è iniziato il lavoro delle attribuzioni. Quando non sono firmate, le opere sono attribuite a singoli maestri, a volte con il nome della collezione che custodisce una loro opera importante, come nel caso del “Pittore del Metropolitan”, così chiamato per i due vasi che sono nella collezione del Met e, ovviamente, in mostra. Entrambi i vasi raffigurano il dio della pioggia, Chahk, una divinità capricciosa e imprevedibile, che brandisce un’ascia in una mano e una pietra animata nell’altra.
I due vasi sono stati dipinti con la mano sicura da un artista che potrebbe aver dipinto e scritto dei codici. I brevi testi sui vasi suggeriscono che i proprietari erano di alto rango, probabilmente di lignaggio reale, ma non riportano il nome del pittore. Altre volte, le attribuzioni vengono fatte a partire da una caratteristica delle loro opere, come nel caso del “Maestro dei Glifi Rosa”, o dal loro rapporto con particolari mecenati, come nel caso del “Maestro 1 di Yopaat B’ahlam”, che è stato individuato da Antonio Aimi e da Raphael Tunesi.
Questo artista ha realizzato un vaso, in mostra, che raffigura la rinascita del dio del mais. Finora sono stati identificati una ventina di pittori, un numero relativamente ridotto rispetto ai circa 120 scultori individuati come autori delle stele o delle altre opere in pietra che erano erette nelle piazze o sulle piattaforme delle città maya. Nelle sculture con bassorilievi, le firme sono spesso incise in basso, mentre il testo principale, che di solito parla dell’evento celebrato e riporta la data di creazione, è scritto più in alto».