Prima ancora di essere un artista, Haim Steinbach (Israele, 1944; vive e lavora a New York) è un collezionista: collezionista di oggetti, per lo più feriali e quotidiani, deliberatamente privi di ogni seduzione, ma anche collezionista di parole, che ama «esporre», gli uni come le altre, secondo una prassi che mette in primo piano da un lato la ritualità dell’atto del guardare, dall’altro la densità simbolica, sociale o culturale acquisita da tali elementi per la sola ragione di essere esposti.
«Io non realizzo oggetti, li trovo e li presento», è l’assunto che sta alla base del suo pensiero d’artista. Lo stesso accade, sin dalla metà degli anni ’80, con le parole, che sono sempre frammenti di testo da lui trovati sui più diversi materiali stampati («mots trouvés», si potrebbero definire, parafrasando gli «objets trouvés» dei surrealisti), di cui conserva carattere e layout, ingrandendoli però fino a conferire loro una dimensione murale.
Nella personale «beep honk toot», che si apre il 3 ottobre da Lia Rumma, Steinbach compie però, sulle parole, un ulteriore passo avanti, con quello che chiama «testo condensato», in cui rielabora digitalmente il suo murale «hello again» del 2013 (esposto nel 2019 per la riapertura del Museum of Modern Art di New York) sottoponendolo a un lavoro di scomposizione e di riorganizzazione, come fosse un puzzle. È questo il lavoro che accoglie i visitatori nel grande spazio al piano terreno della galleria, mentre al primo piano si trova «beep honk toot», l’opera che dà il titolo alla mostra, nel cui processo di condensazione Steinbach introduce l’elemento ulteriore del colore. Il testo originale, presentato nella mostra del 1989 al Museum of Contemporary Art di Los Angeles «Forest of Signs: Art in the Crisis of Representation», è rielaborato con un generatore di numeri casuali, che produce una serie di tessere a gradiente di spettro o a tinta unita. Le tessere vengono poi selezionate a caso per essere riorientate o cancellate: «i risultati, segnalano dalla galleria, vengono poi trasferiti sulla tela, prendendo in prestito lo status del dipinto come piattaforma prototipica per pensare il colore. Il dipinto come convenzione, il dipinto come mensola». Già, la mensola: la diade Steinbach-mensola si è consolidata sin dagli scorsi anni ’80, quando l’artista ha preso a esibire i suoi «objets trouvés» (trovati in negozi, botteghe, mercati) su mensole a muro di segno minimalista, che qui tornano in tre nuovi lavori esposti al secondo piano, due dei quali esibiscono oggetti dei collezionisti che li hanno commissionati. Insieme, sono esposti sei pannelli di truciolato intitolati «Particle Board with Black Shapes» e risalenti alla metà degli anni ’70, sui quali, con l’aiuto di stencil diversi, sono tracciati degli elementari segni neri: una sorta di emersione della struttura sottostante le pareti della galleria, messa a nudo dall’artista e allo stesso tempo trasformata in oggetto artistico grazie all’identico procedimento concettuale sotteso alle sue «mensole».