Nil Yalter. Foto Oliver Abraham

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Nil Yalter. Foto Oliver Abraham

BIENNALE ARTE 2024 | Leone d’Oro alla carriera: Nil Yalter

In pieno accordo con lo spirito della Biennale (dove condividerà il premio con Anna Maria Maiolino), l’artista turca lavora sul tema dell’immigrazione da oltre cinquant’anni, mossa da una motivazione profondamente etica. E ai giovani consiglia: «State lontani dalle gallerie commerciali»

È interessante notare che i Leoni d’Oro alla carriera della 60ma Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia siano stati conferiti a due artiste che vi partecipano per la prima volta. Grazie al loro innovativo lavoro di indagine sui temi della migrazione e alle proprie esperienze personali (sono entrambe migranti), Anna Maria Maiolino e Nil Yalter (Il Cairo, Egitto, 1938) rappresentano a pieno lo spirito di «Stranieri Ovunque - Foreigners Everywhere».

L’artista turca si è trasferita dal Cairo a Istanbul e successivamente a Parigi nel 1965, dove attualmente risiede. Yalter è considerata una pioniera del movimento artistico femminista mondiale, avendo iniziato a lavorare su questi temi sin dagli anni ’60. Nel corso del tempo, ha focalizzato la sua pratica artistica sui temi sociali, specialmente quelli legati all’immigrazione e alle esperienze femminili, adottando un approccio definibile «etnografico» che ha ampliato le possibilità narrative dell’arte concettuale.

Sebbene abbia tenuto mostre retrospettive e personali in importanti istituzioni come il Ludwig Museum di Colonia, l’Hessel Museum of Art di Annandale-on-Hudson, a New York, e il Centre Pompidou di Parigi, il suo lavoro è spesso rimasto in ombra rispetto alla critica internazionale, non «contaminandosi» con le dinamiche di mercato. Mossa da una motivazione profondamente etica, il suo sguardo si è costantemente rivolto verso i margini della società, cercando di coglierne l’umanità più autentica, distante dagli approcci sensazionalistici che a volte caratterizzano l’arte impegnata. Il risultato, dopo più di cinquant’anni di carriera, è un corpo di lavoro impressionante per la profondità e l’incisività che caratterizzano ogni progetto. L’abbiamo intervistata.

Questa è la sua prima volta alla Biennale di Venezia come artista, ma non come un’artista qualunque. Come si sente ad aver ricevuto il Leone d’Oro alla carriera?
Non me lo sarei mai aspettata. Sono rimasta molto sorpresa e ovviamente contenta che il curatore Adriano Pedrosa abbia fatto il mio nome. Ma sento anche una grande pressione e responsabilità.

Il tema «Stranieri Ovunque» è molto vicino a lei, non solo come artista ma anche come persona. Quanto il tema della migrazione ha definito il suo percorso?
L’immigrazione è il punto focale della mia pratica artistica. La prima volta che ho iniziato a lavorare su questo tema era il 1973, più di 50 anni fa, e da lì ho continuato per tutta la vita. Credo che il mio lavoro sia stato scelto proprio per dimostrare come, nonostante oggi ci sia un diverso tipo di immigrazione, sussistano ancora gli stessi problemi. Mi sono sempre occupata di migranti economici, provenienti soprattutto dalla Turchia, ma le persone migrano anche per questioni politiche, o per fuggire dalla guerra e dai conflitti. Tutto ciò è sempre esistito, eppure la situazione oggi non è migliorata, anzi.

Il suo lavoro sarà esposto nella prima sala del Padiglione Centrale. Che cosa troveremo in mostra?
Ci sarà un’opera molto importante, «Topak Ev», esposta per la prima volta nel 1973 al Musée d’art moderne de la Ville de Paris. È una tenda di feltro, a grandezza naturale, che trae ispirazione dalle «iurte» dei popoli nomadi turchi, spazi significativi per quanto riguarda il ruolo della donna all’interno della società di tipo patriarcale. È un’installazione che pone una riflessione sul concetto di pubblico e privato, emancipazione e oppressione delle donne. Oggi «Topak Ev» è esposta presso Arter, museo di arte contemporanea di Istanbul, ma verrà trasportata in Italia per l’occasione. Nella stessa sala, sarà esposta una riconfigurazione di «Exile is a hard job», progetto che ho realizzato nel 2012 a partire da «Turkish Immigrants», con cui ho documentato la vita e la lotta dei migranti nelle periferie di Istanbul, New York e Parigi. In particolare, saranno esposti i manifesti di grande formato e le video interviste che ho realizzato con una Portapak della Sony.

Soffermiamoci su «Exile is a hard job». Che cosa vuole esprimere questo titolo?
«L’esilio è un duro lavoro» è una frase del poeta turco Nazim Hikmet, incarcerato per 13 anni a causa delle sue opinioni politiche. Mi piace come questa frase mette in evidenza la parola «lavoro». Negli anni in cui ho realizzato il progetto, era opinione comune pensare che gli immigrati non fossero brave persone, che venissero in Europa per dare fastidio, e questo succede ancora adesso. Ma la verità è che la loro difficile condizione di immigrati è così faticosa che di per sé è un lavoro, perché svegliarsi ogni mattina e lottare contro le difficoltà imposte da una società che non ti vuole richiede impegno. È una frase che dà loro dignità.

Lei è un’artista molto discreta, di cui non si è parlato molto in passato, o comunque non a sufficienza. Perché?
Quando lavoravo negli anni ’70 e ’80, il mercato dell’arte non era interessato al mio lavoro. Non capivano il mio approccio etnografico e antropologico. Per questo motivo ho sviluppato i miei progetti non all’interno del sistema dell’arte, bensì in collaborazione con le istituzioni pubbliche, le organizzazioni non profit e gli assistenti sociali che operavano nelle zone periferiche oggetto della mia indagine. Grazie a questi intermediari sono entrata in contatto con le persone, ho potuto accedere alle loro case, fotografarle e intervistarle, creando rapporti che durano ancora oggi. È così che ho sempre lavorato ed è così che dovrebbe essere per chi si occupa di arte socialmente impegnata, altrimenti si tratta solo di un furto di immagini. A quel tempo gli immigrati avevano bisogno di esprimersi, avevano bisogno di parlare. Oggi invece è un mondo così pieno di odio, e mi sembra che questo non sia più possibile. Il razzismo è dentro ognuno di noi.

Quanto è importante l’idea di processo nel suo lavoro?
Il mio lavoro è sempre in divenire. Ancora oggi sto riprendendo progetti che ho fatto 50 anni fa. Per esempio, con «Exile is a hard job» da 12 anni creo manifesti che diffondo in giro per le città di tutto il mondo in maniera illegale, utilizzando sempre le stesse immagini, ma sovrapponendoci lo statement «L’esilio è un duro lavoro» in diverse lingue. Sto lavorando a un libro, curato da Eda Berkmen e Ekin Kohen, che riunisce gli interventi fatti in 20 città, tra cui Londra, Dublino, Sharjah, Dubai e Mumbai.

Lei è stata una grande pioniera e sperimentatrice, mettendosi alla prova con molte forme d’arte, dalla pittura alla fotografia, dal video alle installazioni. C’è un linguaggio che preferisce e con cui si sente più a suo agio?
Quando ero giovane, a Istanbul non c’erano musei o cose simili, così mi sono formata prendendo come punto di riferimento qualche libro e copiando quello che vedevo, da autodidatta. Non ho mai frequentato una scuola d’arte, ho imparato tutto da sola. Questo mi ha aiutato a non pormi limiti nel dedicarmi solo a una forma d’arte, come succede spesso quando studi nelle accademie. Non ho tabù, così come non ho preferenze di linguaggi.

Quale consiglio darebbe ai giovani artisti?
Direi loro di stare lontani dalle gallerie commerciali. È vero che oggi il sistema dell’arte sta cambiando e vedo gallerie più attente e sensibili verso gli artisti, ma il miglior consiglio che mi sento di dare è di provare a lavorare senza il loro appoggio. Quello verrà con il tempo. È importante trovare soluzioni diverse per portare avanti il proprio lavoro.

Rica Cerbarano, 25 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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