Mostrare il luogo in cui è cresciuto, condividere l’immaginario che lo ha nutrito: questa era l’ambizione di Julien Creuzet (Parigi, 1986) quando ha tenuto la sua conferenza stampa nella Maison Édouard Glissant, a Le Diamant in Martinica, in occasione del lancio dell’Edouard Glissant Art Fund (Édouard Glissant è stato uno scrittore, poeta e saggista francese, nato in Martinica nel 1928 e morto a Parigi nel 2011, Ndr), di cui è il primo residente, e al suono delle performance di poeti a lui vicini: le parole di Simone Lagrand ed Estelle Coppolani, i suoni di Jacques Coursil.
Il Padiglione della Francia, che basta nominare perché evochi l’orgoglio nazionale, è concepito come un luogo di interrogazione e ridefinizione. E la forma insulare di Venezia fa eco a questo pensiero in forma di arcipelago. Quanto a ciò che vi vedremo, il segreto è ben custodito. Un’anticipazione potrebbe suggerircela la mostra «Ô téléphone, oracle noir (…)», che Creuzet ha inaugurato nell’autunno del 2023 a Le Magasin di Grenoble.
Le parole e i suoni hanno ovviamente un posto speciale nel lavoro dell’artista, come dimostrano i titoli delle sue mostre, che sono di per sé poesie e manifesti essenziali. La mostra è stata curata da Céline Kopp, direttrice di Le Magasin, e da Cindy Sissokho, curatrice della Wellcome Collection di Londra. Gli inviti di Julien Creuzet ai suoi amici artisti hanno lo scopo di ampliare il raggio d’azione della comunità artistica in Martinica e, più in generale, in Guadalupa, Saint-Martin, Guyana francese, Riunione, Mayotte e Saint-Pierre-et-Miquelon. Il titolo del Padiglione francese, lungo come una poesia, è questo: «Attila cataracte ta source/aux pieds des pitons verts/finira dans la grande mer/gouffre bleu/nous nous noy.mes/dans les larmes marées de la lune».
Julien Creuzet, la Martinica della sua infanzia è onnipresente nel suo lavoro. Si può dire che sia per lei un serbatoio dell’immaginazione, un atelier in forma di paesaggio?
Alcuni luoghi attivano i nostri pensieri perché testimoniano un ricordo d’infanzia e una memoria storica che si intrecciano. La Martinica mi è particolarmente cara. Vi proietto molte cose, perché vi trovo un gran numero di significanti. Ci troviamo nel parco della Maison Édouard Glissant e quando percorro il sentiero che vi conduce, riesco a dare un nome a tutti gli arbusti. So che certe piante del sottobosco possono essere usate per fare il tè, che un certo albero nasconde e racconta una certa storia. Questo mi stimola enormemente.
Intorno a noi sentiamo il canto degli uccelli e il rumore del mare. Qual è il suo legame con Édouard Glissant?
Sentiamo i merli. Le femmine hanno un piumaggio più grigio e i maschi sono più luminosi. Sono uccelli spericolati che a volte si avvicinano alla testa per strapparci i capelli. Il mare che si sente è il Mar Diamante e oggi è un po’ agitato. Ha portato con sé il sargasso da lontano, segno che le acque si stanno riscaldando. Siamo infatti nella casa di Édouard Glissant, che presto diventerà una residenza per artisti. Dopo la sua morte, avvenuta il 3 febbraio 2011, la moglie Sylvie e il figlio Mathieu si sono battuti per farne un luogo protetto. Il mio legame con Édouard Glissant risale alla mia infanzia. Non l’ho mai conosciuto, se non attraverso i numerosi programmi radiofonici e video che continuo a guardare, e soprattutto attraverso la sua letteratura, le sue poesie e i suoi saggi, che mi hanno commosso. Ho la sensazione che il suo sia un modo di pensare che ci aiuta a vivere il mondo, a vivere un futuro, a reinventarlo, in momenti in cui l’umanità dovrà prendere decisioni importanti su questioni fondamentali come il clima, le scelte energetiche, le migrazioni, le questioni filosofiche e poetiche.
Come definirebbe la sua visione della Martinica, la sua visione del mondo?
La Martinica e, più in generale, i Caraibi sono stati territori di sperimentazione, di connessioni forzate o fortuite tra una moltitudine di civiltà. Per dirla in modo caricaturale, nei Caraibi e in Martinica c’è quasi qualcosa di Wall Street! Le relazioni geopolitiche in questa regione sono come una prefigurazione dei nostri problemi contemporanei. La Brexit potrebbe essere stata giocata a pochi metri dalla Roccia del Diamante (isola disabitata che occupa una posizione strategica a nord dello stretto di Saint Lucia, Ndr), tra Francia e Gran Bretagna... È importante lasciarsi alle spalle Parigi e le sue istituzioni politiche e culturali e dare uno sguardo più ampio a ciò che è la Francia, a ciò che significa essere francesi, perché questo è un territorio francese, in tutta la sua complessità.
Édouard Glissant le ha insegnato a «non dire»?
Dalle Metamorfosi di Ovidio all’ultima raccolta di Estelle Copolany, la poesia ci insegna a dire ciò che è impossibile, ciò che è sepolto dentro di noi, ciò che la bocca vorrebbe verbalizzare ma non può. La poesia ci permette di abbandonare le strutture grammaticali intelligibili, di ricreare le parole. È la natura stessa dell’arte a essere un linguaggio che può essere loquace o silenzioso. I nostri corpi, messi a contatto con queste forme, ci chiedono di interrogarci. Édouard Glissant invoca il diritto all’opacità: non conosciamo mai l’altro, che conserva sempre la sua parte di segretezza, mistero e indeterminatezza. Nel linguaggio della psicoanalisi, le nozioni di conscio e inconscio possono essere verbalizzate attraverso i corpi e i gesti, che sono addormentati, silenziosamente presenti. Da lì, possiamo provare a formulare le cose in modo diverso. In conferenza stampa Jacques Coursil, linguista, matematico e musicista, che conosceva perfettamente i poeti della «negritudine», in particolare Édouard Glissant. È stato assistente del presidente del Senegal, Léopold Sédar Senghor, e si è trasferito negli Stati Uniti alla morte di Martin Luther King nel 1968. Eppure, l’unico mezzo di espressione preciso di questa persona colta era il suono della tromba, come se il respiro dell’ottone gli permettesse di dire ciò che aveva da condividere più profondamente. È una bella cosa per un linguista rinunciare al linguaggio verbale, dire che il respiro di un grande fumatore può essere una melodia che ci fa oscillare.
Che tipo di lettore è?
Sono come un uccellino che becca, che non mangia tutto in una volta, ma che si prende il suo tempo. La mia biblioteca è curiosa: amo le parole, ma soprattutto le immagini. In un certo senso, la mia biblioteca è più interessata alle immagini che alle parole. Ci sono autori che hanno ripensato l’architettura del romanzo a misura della vita quotidiana delle persone. Un libro che potrebbe essere definito una bibbia per il suo spessore, o per le frasi molto strutturate che non ti fanno mai smettere di leggere, tiene conto di un certo tipo di individuo. Ma nell’architettura della poesia c’è un ritmo più adatto a persone che hanno poco tempo, che lavorano molto, che hanno molteplici obblighi professionali e familiari. È più facile da affrontare rispetto ad alcuni saggi o romanzi. Ho la sensazione che il mio amico immaginario Dany Laferrière (scrittore e sceneggiatore haitiano naturalizzato canadese, Ndr), perché non ci siamo mai incontrati, abbia ripensato l’architettura del romanzo nel corso dei suoi libri, nel modo in cui taglia paragrafi che a volte sono lunghi una pagina. Per esempio, se si legge uno dei suoi libri durante un viaggio in metropolitana tra le stazioni Mairie-de-Montreuil e République, si ha il tempo di leggere un paragrafo, mentre tutto si muove intorno a noi, e lo si può portare con sé per tutto il giorno. Poi, quando si torna, si può leggere un altro paragrafo prima di occuparsi della famiglia. Penso che sia meraviglioso che alcuni autori stiano ripensando la letteratura attraverso gli occhi di così tante persone su questo pianeta. Dany Laferrière pensa alla realtà del popolo haitiano o della sua diaspora. Queste persone hanno una realtà. La letteratura ascolta la realtà di tutti. Siamo attenti a chi ci rivolgiamo.
Il telefono cellulare, che compare nel titolo della sua mostra a Grenoble, «Ô téléphone, oracle noir (…)», sembra essere per lei uno strumento quasi insostituibile...
Per me, il telefono è come una bacchetta magica: un oracolo nero custode di una memoria nera, la pietra di ossidiana che André Malraux usava per parlare di Pablo Picasso. Il telefono, con il suo specchio nero, è quasi un organo esterno che ci dà una certa quantità di informazioni, ci dice dove siamo, ci permette di comunicare, di sapere ciò che non sappiamo, di essere la nostra memoria. Il mio telefono mi accompagna da molto tempo. Ho imparato a scrivere grazie ad esso, perché non posso scrivere a mano. E non perché non abbia imparato a farlo. Ci sono difficoltà nell’esprimersi, che oggi sono considerate disturbi funzionali, in particolare nella scrittura a mano. Ho trovato grande gioia nell’esprimermi attraverso la tastiera di un computer e di un telefono cellulare. Al contrario, Édouard Glissant dice che non bisogna usare il computer per scrivere, ma che bisogna scrivere a mano. Queste differenze generazionali sono interessanti, così come il modo in cui ci appropriamo degli strumenti. Ho bisogno della mia memoria di archiviazione per compilare le parole, per decidere che cosa accadrà di fronte a una situazione.
Potrebbe parlare dei luoghi che hanno segnato la sua infanzia: Cap 110, il tombolo di Sainte-Marie, la cascata dell’Absalon, Notre-Dame-de-l’Assomption...
E ce ne sono molti altri... Uno dei miei sogni è dare alle persone le chiavi per conoscere il paesaggio della Martinica. Non si possono trasmettere questi codici parlando, leggendo o guardando un video. Un territorio va vissuto e sentito.
Come immagina che i visitatori del Padiglione francese alla Biennale possano accedere all’immaginario e alla realtà della Martinica?
La stampa può condividere informazioni che forniscono chiavi di lettura. Ci sono opere letterarie che parlano delle persone che vivono in questi territori, degli artisti che li abitano. Come possiamo parlare di ciò che non conosciamo? Come si fa a dare un nome a ciò che non si conosce? Se qualcuno parla della mia mostra e mi descrive come una persona, è perché non sa come parlare della mostra: Julien Creuzet è una persona di colore con molti capelli, ecc. È una forma di compromesso e, soprattutto, un fallimento. Vivere in questo territorio, anche solo per tre giorni, significa incontrare altri martinicani e persone appartenenti a un’altra «razza», e rendersi conto che questa descrizione è solo una volgare generalità. Comprendere i temi trattati da alcuni artisti francesi senza aver vissuto sul loro territorio è un atto di dominio. Venire qui significa lasciarsi trascinare da una storia. Quando qualcuno del Marocco, del Senegal, del Sudafrica o dell’Uganda entra nel padiglione, è in grado di cogliere i codici che condividiamo. Per chi viene da Stati Uniti, Messico, Brasile, Colombia, Panama o Canada sarà la stessa cosa. Per gli italiani, i francesi, i tedeschi o gli inglesi, ci saranno ancora più codici da utilizzare, separati dall’esperienza che stiamo vivendo. Ci sono cose che accadono a Venezia e altre in Martinica. Ci sono legami tra i Caraibi e l’Italia, ma io dissocio i due tempi, che hanno ragioni d’essere diverse.
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