Jeffrey Gibson rappresenta gli Stati Uniti alla 60ma Biennale di Venezia: è la prima volta che il Paese allestisce una mostra personale di un artista indigeno. Gibson, membro della Mississippi Band of Choctaw Indians e di origine Cherokee, è nato in Colorado nel 1972 e si è trasferito spesso durante la sua infanzia, vivendo sia negli Stati Uniti sia all’estero, ad esempio in Germania e in Corea del Sud. Questa educazione internazionale ha influenzato il lavoro colorato di Gibson, che spesso incorpora le tradizioni dei nativi americani con testi, una grande varietà di tessuti e concetti come identità e globalismo.
Che cosa rappresenta per lei il fatto di rappresentare gli Stati Uniti, data la storia di massacri, sfollamenti e razzismo del Paese?
Inizialmente è stato molto scoraggiante. La mia proposta iniziale era molto diversa da quella che poi ho deciso di realizzare. Sono andato a Venezia nel 2022 e mi sono reso conto del peso e della pressione di rappresentare gli Stati Uniti; ho iniziato a pensare a ciò che ritenevo importante per me, dal punto di vista dei contenuti, per contribuire a questo progetto. In definitiva, si è trattato di esaminare la mia pratica artistica e di pensare alle cose che hanno avuto un maggiore impatto sul pubblico. In parte si tratta di vedere sé stessi nel lavoro, in particolare i nativi e gli indigeni. Nelle comunità native, molte persone fanno riferimento alle loro nazioni, come la Nazione Choctaw. Parole come «nazione» e «patria» diventano complicate quando rappresento gli Stati Uniti. Ho dovuto anche essere molto onesto con me stesso, perché durante la mia vita, cresciuta all’estero, mi sono identificato come americano e poi ho parlato dell’essere nativo americano in luoghi in cui alcune persone non avevano molta familiarità con questo concetto. Ho sentito la responsabilità di raccontare la mia storia.
Il titolo del Padiglione è «The space in which to place me» (lo spazio in cui collocarmi, Ndr). Può dirci che cosa l’ha attratta in questo passaggio della poesia «He Sápa» di Layli Long Soldier?
Seguo il lavoro di Layli da anni e «mi parla» a livello personale. È in grado di tradurre in parole e di scrivere su una pagina i pensieri che ho avuto per tutta la vita. Quando ho pensato al titolo, sapevo di voler lavorare con una scrittrice indigena (Layli Long Soldier è una poetessa, scrittrice, femminista, artista e attivista Oglala Lakota, Ndr). Il testo recita: «This is how you see me the space in which to place me/The space in me you see is this place/To see this space see how you place me in you». Questa poesia fa quello che io cerco di fare quando utilizzo dei testi, cioè invita a sperare sempre che le persone possano proiettare sé stesse e le loro storie in un modo che diventi autoriflessivo. Questo è uno degli obiettivi del Padiglione. Sebbene io sia indigeno, spero che non ci si consideri solo come entità separate, ma piuttosto come individui con esperienze che possono sovrapporsi a quelle di persone di nazionalità e provenienze diverse.
Quali temi approfondisce il Padiglione?
Ho iniziato a leggere i testi fondamentali degli Stati Uniti, la Carta dei Diritti e la Dichiarazione di Indipendenza, e alla fine sono arrivato agli emendamenti e alle proposte che non sono ancora state approvate o che potrebbero non esserlo mai. Nella mostra, che comprende poco più di 20 opere, si passa poi agli individui che hanno fatto parte di questi movimenti e alle loro dichiarazioni: per me è un modo meraviglioso di attraversare la storia e di pensare alla mia famiglia e alle mie tribù, a dove sono esistite negli Stati Uniti e in quali periodi storici.
Quali sono, secondo lei, i tratti distintivi di un Padiglione nazionale di successo? Ce n’è qualcuno del passato che le è rimasto particolarmente impresso?
Il Padiglione inglese di Mike Nelson («I, Imposter» nel 2011, Ndr). Era come se mi trovassi in uno strano stato mentale. Non riuscivo a trovare un senso, ma mi sembrava un’esperienza reale, molto coinvolgente, alla quale volevo tornare. Ricordo anche di aver visto l’installazione di Félix González-Torres nel Padiglione americano («America» nel 2007, Ndr). Sono un suo grande fan e mi ha influenzato molto. Per me un padiglione forte è quello in cui lo spazio viene affrontato e in cui non si ha la sensazione che si sia cercato di ricreare uno spazio istituzionale neutro, perché l’edificio stesso è importante dal punto di vista scultoreo. Il Padiglione americano è stato presentato alla Biennale solo a partire dal 1930, quindi credo sia interessante che l’architettura sia molto segnata dal periodo in cui è stato costruito, un periodo molto significativo anche per i nativi americani. Sono poche le cose che non portano con sé una grande mole di contenuti, compreso l’edificio stesso.
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