Avete presente il Padiglione Italia del 2022? Ecco, quello che attende i visitatori dal 20 aprile al 24 novembre è il suo contrario. Se due anni fa Gian Maria Tosatti portò il visitatore in un lungo viaggio al termine della notte, ripercorrendo in parte la storia recente del nostro Paese, quello attuale, concepito dal curatore Luca Cerizza (Milano, 1969) e dall’artista Massimo Bartolini (Cecina, 1962), è il suo contrario. Uno spazio pressoché privo di suddivisioni interne, abitato dalla musica e da due «presenze» fortemente simboliche, l’albero e una statuetta del Bodhisattva pensieroso (figura centrale nella cultura buddista), ovvero la natura e la spiritualità (mentre le muse dominanti nel Padiglione italiano sono spesso state la storia e la memoria), con un’estensione a Villa Fürstenberg a Mestre, è quanto offrono un curatore e un artista che più volte hanno lavorato insieme. «Due qui/To hear», promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, è il titolo del progetto, giocato sull’assonanza fra la traduzione inglese «Two here» e la sua pronuncia, «To hear», cioè «udire, ascoltare».
Luca Cerizza, nel 2010 lei ha pubblicato un saggio intitolato «L’uccello e la piuma. La questione della leggerezza nell’arte italiana». È cambiato qualcosa?
Quel piccolo libro era una domanda aperta cui io stesso non so dare, ancora oggi, veramente una risposta. Nasceva da una lunga esperienza di vita e lavoro all’estero e il rapporto con una diversa visione dell’arte in rapporto alla politica. Il mio intento era di ritornare al messaggio originale del testo di Italo Calvino sulla leggerezza cui è dedicata una delle sue Lezioni americane e provare a capire l’eventuale portato politico dell’arte italiana del post Transavanguardia e le ragioni eventuali del perché questo impegno politico manchi. L’ho scritto nella speranza di poter affermare, come fece Bob Dylan in un famoso e turbolento concerto del 1966: «These are all political songs!», anche se aveva ormai abbandonato il movimento folk di protesta. Ecco, spero che l’arte italiana nelle sue espressioni migliori abbia anche questa capacità critica, politica, ma tocca anche al nostro sistema artistico avere la capacità di raccontare questa «diversità».
Lo è anche il lavoro di Massimo Bartolini?
Io penso lo sia. Ma lo è senza etichette e senza proclami, con una visione più universale. In questo senso entra in un più generale atteggiamento dell’artista italiano, di un forte timore nei proclami che rischia, però, di relegarli in una situazione di marginalità a livello internazionale. La metafora della Gorgone utilizzata da Italo Calvino è esemplare in questo senso. Il mito racconta che la Medusa è il male e che per non soccombere non bisogna guardarla negli occhi. È come dire: l’arte può trattare l’obiettivo polemico o politico, non facendone un proclama ma in modi più indiretti.
Il Padiglione Italia è di circa 1.200 metri quadrati. Avete dichiarato che non ne modificherete l’interno…
La volontà era quella di non musealizzare il Padiglione, come è stato fatto in alcune edizioni precedenti. Volevamo rispondere alle caratteristiche di uno spazio che è, sì, molto grande (noi poi usiamo anche il giardino), ma ha una qualità e un fascino indiscutibili. Questo atteggiamento, d’altronde, è in continuità con il lavoro di Massimo e il mio nei nostri rispettivi campi. È stata anche una scelta di sostenibilità: non mettere muri (li abbiamo anzi ridotti dov’era possibile farlo) ha a che fare con necessità economiche ma anche ecologiche. In ogni caso non è un padiglione vuoto. Ovviamente il suono, che è spazio e architettura di per sé, svolge la sua parte. È uno spazio tripartito con due possibili accessi: si potrà entrare dalla Tesa, come si fa tradizionalmente, ma anche dal giardino. Ci sono due opere, una nel giardino e una nella Tesa, sempre di matrice sonora, che lasciano spazio ma hanno una presenza. La Tesa più grande sarà occupata dall’opera principale, un lavoro attraversabile: si attraversa uno spazio ma anche un suono. È poi vero quello che ha detto Massimo, cioè che non ci sono iconografie, non ci sono immagini. Abbiamo utilizzato una statuetta del Bodhisattva pensieroso come l’unica icona di questa esperienza.
Un’espressione come «arti visive» è ancora adatta rispetto a ciò che sempre più spesso propone l’arte?
Mi sento vicino a una linea dell’arte in cui la smaterializzazione e la dimensione performativa sono molto forti. Ho già lavorato in molte occasioni in questa direzione. Il suono è stato sempre, per Bartolini e per me, un terreno comune d’incontro, fin dalla metà degli anni ’90. Ciò che presentiamo entra, però, in un contesto caratterizzato, negli ultimi anni, da un grande ritorno, nelle istituzioni d’arte, della dimensione dal vivo o comunque di espressioni legate alla danza, alla coreografia, alla performance, alla musica.
A che cosa si deve questo grande ritorno?
Secondo me alla crescente capacità, precisione e pervasività con cui possiamo fruire a distanza di mostre e opere, attraverso i canali digitali. In questi ultimi anni le istituzioni d’arte hanno risposto a questa situazione dando spazio a eventi da vivere direttamente, «in presenza». L’uso crescente di artisti che usano il suono e la musica come materiale linguistico e lo spazio che hanno mi sembrano tra le risposte possibili a questa situazione. Nel nostro caso le immagini diranno sicuramente qualcosa, ma l’esperienza diretta sarà cruciale. In questo senso mi viene in aiuto l’ultimo libro del filosofo Byung-Chul Han, letto a progetto già ultimato: «L’esperienza si fonda sul donare e sul ricevere e il suo medium è tendere l’orecchio».
Che tipo di musica «abita» il Padiglione Italia?
Ci sono tre installazioni sonore: la prima, quella legata al Bodhisattva, è un elemento sonoro molto puro, semplice, legato a questi pensieri, cioè appunto alla vibrazione, a un uso della musica che ha avuto ovviamente riferimenti anche nella nostra musica occidentale, ma che ha anche degli utilizzi in altre culture, soprattutto buddhista e induista. Per quanto riguarda le due musiciste che hanno lavorato all’opera centrale, Caterina Barbieri è una piccola star del mondo della musica elettronica. Ma è anche una compositrice con studi classici e sulla musica tradizionale indiana e il minimalismo. Abbiamo invitato Kali Malone anche perché lei e Caterina sono molto amiche, ma raramente lavorano insieme. Kali ha un approccio forse più di avanguardia ma si rifà a tradizioni secolari della musica occidentale come la musica per organo e quella corale, che hanno avuto applicazione ovviamente nel contesto della musica sacra. Ci piaceva ci fosse anche un riferimento lontano alla musica barocca veneziana, al modello dei cori alternati suonati a San Marco in epoca barocca. Il pezzo che si sente nel giardino è composto invece da Gavin Bryars con il figlio Yuri: è ispirato a una poesia di Roberto Juarroz nella quale il protagonista immagina di essere un albero, una creatura con radici, quindi di essere immobile ma allo stesso tempo di riuscire a sentire tutto. Questo si articola anche col Bodhisattva: si tratta di due figure simboliche che non si muovono, ma questa loro apparente inazione non è indice di disinteresse o di mancanza di relazione. Al contrario, è un modo di relazionarsi più profondamente con gli altri, inclusa la natura. Come direbbe la musicista Pauline Oliveros, uno dei numi tutelari di questo progetto, è una questione di «Deep Listening», di «ascolto profondo».
Il Padiglione Italia è una riflessione sull’attuale inefficacia delle immagini come forma di narrazione?
L’azzeramento, la rarefazione del linguaggio sono stati sentimenti ispiratori. A me, come succede in molte opere di Massimo, interessa creare lo spazio, uno spazio di attraversamento, di pensiero in cui noi esseri umani abbiamo una possibilità. Una possibilità di ascolto.
La spiritualità è una delle «muse» del Padiglione?
Usiamo quella parola con molta cautela in mancanza, forse, di altre più precise. Di sicuro è una sorta di riduzione di informazioni, stimoli sensoriali in cui l’individuo riprende uno spazio di riflessione, di pensiero. Guardi, ho appena risentito un vecchio ma poco conosciuto brano di Björk che canta: «I like this resonance, it elevates me» («Mi piace questa risonanza, mi eleva»). È tutto qui, forse.
Come si articola il Public Program?
Nei giorni della vernice sono in programma alcune performance. Vi sono coinvolti due scrittori: Nicoletta Costa, che è anche una nota illustratrice per bambini, e Tiziano Scarpa, veneziano con tanti rapporti con il mondo dell’arte. Su nostro invito hanno scritto due testi, di tono diametralmente opposto, che verranno performati all’interno di una nuova opera di Bartolini. Il vero e proprio Public Program è articolato in quattro mezze giornate (venerdì e sabato). Da metà luglio a metà settembre, tempo permettendo, si svolgerà negli spazi del giardino, quando inviteremo alcuni filosofi, scrittori, saggisti, forse anche musicisti, che interverranno su quattro aspetti legati a diverse declinazioni del tema dell’ascolto. Il primo è «Politica dell’ascolto» e su questo argomento parleranno, tra gli altri, Brandon LaBelle, uno studioso di musica molto importante, un americano che vive a Berlino e la batterista e percussionista Valentina Magaletti. Il secondo tema prende il titolo da una frase di Chandra Candiani, «Fiducia nello sfondo», dove lo sfondo in verità è la natura. Quindi, si tratta di ascoltare l’elemento naturale, un tema importante nel lavoro di Bartolini. Parlerà, tra gli altri, David Haskell, un biologo e scrittore americano cruciale per i suoi libri sul suono della natura, e avremo un workshop di Lola Posani sul «Deep Listening». A metà luglio sarà la volta di «Meditazione in-azione» più legato al rapporto musica-spiritualità, con Francesca Tarocco di Ca’ Foscari e molti altri contributi. L’ultimo appuntamento di metà settembre sarà sull’ascolto della macchina, altro tema importante in Bartolini.
Che cosa vedremo, o sentiremo, nella sezione del Padiglione Italia a Mestre?
È un progetto nato in relazione al secondo sponsor del Padiglione Italia, che è banca Ifis e si svolge a Villa Fürstenberg. È un’estensione di un’opera di Massimo intitolata «Ballad (For a Tree)», incentrata sulla relazione con la natura e il paesaggio. Quest’opera (del 2003) è un gesto se vogliamo «assurdo»: un sassofonista (Massimo come me è appassionato di musica ma soprattutto di Free Jazz) improvvisa un assolo davanti a un albero. Nel parco di Villa Fürstenberg ci sarà una versione estesa di questo lavoro per più alberi. Una sorta di grande concerto esteso, di tante individualità che forse diventeranno comunità.
In conclusione, il Padiglione Italia sarà tutto tranne che un assolo di Bartolini…
Credo che sarà una grande opera polifonica in cui tante voci diverse sono messe in relazione all’interno di una comune temperatura di pensiero.
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