Una coppia in abiti sportivi si abbraccia sulla banchina di un grande porto industriale. È una scena del tutto usuale, un momento come tanti altri, se non fosse per i cellulari che, impugnati da entrambi alle loro spalle, ne rompono ogni romanticismo. Certo, chi siamo noi per poter giudicare? In un mondo in cui l’approvazione altrui è la moneta del secolo, a partire dai social, essere connessi online vale di più della connessione che nutriamo nelle nostre relazioni «reali». Così, rivolgendo lo sguardo verso Hong Kong, la popolosa metropoli asiatica dove il fotografo, nato a Varese, si è trasferito nel 2014, Pierfrancesco Celada (1979) racconta di come, anche in una città con quasi sette milioni e mezzo di persone, ci si può sentire soli. Lo fa in «Happy Valley», sua prima personale nel sud-est asiatico, in visione presso il Singapore International Photography Festival fino al 5 gennaio 2025.
Tratta dalla serie di fotografie da lui raccolta in un volume omonimo in uscita questo mese, sviluppata tra il 2014 e il 2022, la mostra si dispiega come un’allegoria della sua «ricerca di una vita ordinaria a Hong Kong». Curata da Gwen Lee, co-presentata da Esplanade, e organizzata da Deck con il supporto dell’Italian Council, si rifà ai soggetti e agli scenari in essa ritratti per esplorare «la sua relazione con la città, dando vita a un ritratto contemporaneo di Hong Kong che ne riflette le realtà complesse e multistrato». Un cielo tetro e nuvoloso evidenzia le sagome dei protagonisti del viaggio di Celada: c’è chi posa in gruppo in occasione di un matrimonio con un sorriso incerto, appena accennato, a tratti forzato, chi cerca riparo dai grattacieli hongkonghini nella vegetazione, chi scappa da tempeste di pioggia inattese, e chi, sulla strada verso il lavoro, diventa un’ombra sull’asfalto assolato.
Sono almeno 11.936 i chilometri che separano Hong Kong dall’Italia, eppure, vista attraverso la lente dell’artista, questa sembra incredibilmente vicina. Gli sguardi assenti dei suoi cittadini, troppo focalizzati sugli schermi dei propri dispositivi per essere presenti a sé stessi, sono quelli di qualsiasi altra città contemporanea. Tra i contesti urbani di «Happy Valley», spiccano le fotografie che ne tralasciano le strutture in cemento per catturare la libertà apparente, agognata, o negata dei loro elementi naturali: penso alla nuotata ritratta in bianco e nero dallo stesso Celada, sintomo di un disagio che sfugge la superficie, alla busta di plastica annidata su una baia deserta, simbolo dell’inquinamento non solo di Hong Kong, ma dell’intero pianeta, e alle scie di gas sospese a mezz’aria sopra le teste dei manifestanti nelle proteste da lui documentate.
«Camminando per Hong Kong, vedi passare un tram con destinazione “Happy Valley”», racconta il fotografo. «Nei momenti in cui senti il peso della città sulle spalle, mi piace pensare che quella visione possa suscitare speranza». Quando tutto sembra perduto, Celada ci ricorda che, malgrado le apparenze, abbiamo sempre un posto in cui poter arrivare.