Fino al 19 gennaio 2025 Triennale Milano presenta la mostra «Davide Allieri. After All» a cura di Damiano Gullì, curatore per Arte contemporanea e Public program di Triennale. Il progetto espositivo si inserisce in un percorso di promozione e valorizzazione della scena artistica italiana avviato dall’Istituzione già da qualche anno e prosegue la riflessione sui temi del corpo, dell’identità, dell’alterità e della percezione dello spazio esplorati da mostre collettive, come «Pittura italiana oggi» (https://www.ilgiornaledellarte.com/Articolo/Un-censimento-troppo-generoso-quello-della-Triennale), e personali di autori di diverse generazioni, da Corrado Levi a Lisa Ponti e Mariella Bettineschi, da Marcello Maloberti ad Anna Franceschini, da Lorenzo Vitturi ad Alice Ronchi, Luca Staccioli e Gianni Politi (https://www.ilgiornaledellarte.com/Mostre/Gianni-Politi-Da-dieci-anni-dipingo-lo-stesso-ritratto), da Francesco Vezzoli a Nico Vascellari.
Fedele al suo immaginario estetico, intriso di riferimenti mutuati dal cinema di fantascienza, dall’universo cyberpunk e dal teatro, come fosse un viandante sopravvissuto, una sorta di archeologo del futuro, Allieri (Bergamo, 1982) si mette in cammino alla ricerca di resti e lacerti del mondo che viveva. Nel farlo, riconfigura l’Impluvium attraverso una serie di interventi site specific che stimolano lo spettatore a fare esperienza di uno scenario apocalittico e post umano.
La mostra sembra una grande Babele dove gli oggetti più eterocliti, frammenti di esperienze e di realtà disarticolati, assemblati senza ordine gerarchico, formano composizioni disseminate in maniera randomica nell’ambiente. Quale significato sottendono queste opere?
Si tratta di lavori creati appositamente per l’occasione, che si inscrivono nel perimetro della mia ricerca: una visione distopica della realtà. Nel proiettarmi verso un futuro possibile, non posso che immaginarmi un panorama caratterizzato da disastri ecologici, delirio di controllo, imperanti sistemi di comunicazione, paura nei confronti di virus e malattie. Le opere non fanno altro che dare concretezza a queste ossessioni e alle angosce che pervadono la nostra contemporaneità. Interagiscono con lo spazio, con la luce che lo circonda, dialogano con dettagli tutt’altro che scontati come i binari che attraversano il soffitto o i bocchettoni circolari dai quali fuoriesce l’aria.
Si potrebbe parlare di un’estetica della precarietà, specie in riferimento all’installazione «Communication System» (2024), che si sviluppa in altezza e allude a tecnologie di sorveglianza. Un intricato sistema di cavi, relitti e oggetti che non hanno valore di per sé, ma è la loro reinterpretazione che conta.
Sebbene il mio processo creativo non sia standardizzato, sono solito appropriarmi di elementi che appartengono al mio quotidiano. Dalla strada, da una discarica a cielo aperto che è molto prossima al luogo dove ho stabilito lo studio o da altri contesti di degrado e disagio, che riguardano tutte le metropoli e non solo Milano, prelevo cose utili al mio lavoro come cavi elettrici o bombole in acciaio per poi rielaborarle, anche con una certa propensione per la sperimentazione materica. Di alcuni dispostivi, come le antenne paraboliche trovate casualmente, ho fatto il calco e poi li ho riprodotti con fibra di vetro. C’è, anche nel procedimento operativo, il desiderio di creare una sorta di doppio, una realtà doppia, la volontà di costruire un mondo parallelo che traduce oggetti noti e di uso comune in manufatti artistici precari perché fragili, realizzati con alluminio che si spezza o in vetro resina trasparente e leggera e dalla resa quasi organica. Una contraddizione in termini, a ben vedere, perché si tratta di materiale assolutamente artificiale che di organico non ha nulla.
In mostra è esposta una scultura in vetro resina «Tx9kd Pod» (2014), una sorta di guscio, un luogo di riparo e consolazione dentro il quale pare lei tenti di risolvere il senso di fragilità che permea la natura umana e la sensazione di instabilità nei confronti del futuro. Ce ne può parlare?
Qui entra in gioco la mia esperienza personale. Sono originario della città di Bergamo e ho vissuto in maniera molto intensa, e anche drammatica direi, il periodo della pandemia. Una situazione che non aveva nulla da invidiare a un film di fantascienza ma che purtroppo era tragicamente reale e tangibile a più livelli. In quel periodo, impossibilitato a uscire, costretto a casa davanti a uno schermo perché tutto accadeva online, ho iniziato a esplorare la possibilità di creare questi dispositivi di isolamento e protezione. La scultura qui esposta rappresenta un’idea di capsula dentro la quale nascondersi. L’estetica rimanda a quella degli insetti, agli esoscheletri delle tartarughe, per esempio, ma in generale fa riferimento alle creature antropomorfe e alle corazze resistenti e protettive di cui sono naturalmente dotate.
Appesi alle pareti, incapsulati in rigide strutture, ci sono alcuni disegni come «Lost in the shell» (2024), che rappresenta paesaggi abbandonati e architetture brutaliste.
Anche l’oggetto, come l’uomo, necessita di essere protetto e isolato dal mondo. Questi disegni si relazionano con le sculture in un dialogo fatto di continui rimandi. L’immaginario di partenza è sempre lo stesso, in particolare per queste opere la scena iniziale del film «Blade Runner 2049», in cui il protagonista vola su campi fotovoltaici coltivati. Ho lavorato mescolando le atmosfere di quell’incipit con altri elementi architettonici industriali, aggiungendo una sorta di nebbia tossica molecolare e racchiudendo il tutto dentro una spessa cornice di vetro resina. Il risultato è piuttosto straniante, perché alla ragnatela di segni tracciati su carta molto leggera, quasi impalpabile, fa da contrappunto la consistenza della plastica impregnata di resina.
«After all», recita Il titolo della mostra. Allora le chiedo, dopo tutto, dopo la stagione dell’antropocene, quella del capitalocene e della crisi climatica e ambientale, quale orizzonte ci attende?
La mostra è una domanda aperta. Il titolo rimanda a un viaggio epico tra le epoche e alla visione di un Uomo che va scomparendo. Ma il percorso espositivo lascia allo spettatore la possibilità e l’impegno di immaginarsi un futuro diverso. È il pubblico che deve tornare a essere protagonista di un’arte che vuole sollevare interrogativi e non semplicemente esaurire la sua funzione accontentandosi di appendere quadri alle pareti o mettere sculture su un piedistallo.