Il Centre Pompidou di Parigi dedica la prima grande retrospettiva europea alla fotografa americana Barbara Crane (1928-2019). La mostra riunisce alcuni dei suoi lavori più importanti, realizzati dagli inizi degli anni ’60 fino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, concentrandosi sui primi vent’anni della sua carriera. La mostra, che sarà aperta fino al prossimo 6 gennaio, e il relativo catalogo, edito da Atelier Exb, devono molto alla cura di Julie Jones, che ha insegnato all’Università di Paris I Panthéon Sorbonne, alla Scuola Nazionale di Arti Decorative di Parigi e che è attualmente curatrice del Gabinetto di Fotografia del Museo Nazionale d’Arte Moderna-Centre Pompidou. La Crane è riconosciuta negli Stati Uniti dalla metà degli anni Sessanta, anche perché il suo lavoro, sviluppato in oltre settant’anni, è riconducibile a quella che viene definita Scuola di Chicago (Josephson, Jachna, Metzker, Nan, Sterling, Ishimoto ed altri). Le sue fotografie sono conservate in prestigiose collezioni americane, come l’Art Institute di Chicago, il Museum of Modern Art di New York o il J. Paul Getty Museum di Los Angeles.
Partendo dagli studi al Mills College di Oakland, passando per la New York University, l’artista ha proseguito la sua formazione, a metà degli anni ’60, presso l’Institute of Design di Chicago. Operando all’incrocio fra la tradizione della «straight photography» e una sensibilità tutta sperimentale, ereditata dalle avanguardie europee, Barbara Crane ha continuato ad esplorare liberamente e senza condizionamenti di stile, forme e tecniche fotografiche (dai processi analogici a quelli digitali, dalle stampe istantanee Polaroid alle stampe al platino-palladio, fotografando a colori o in bianconero), combinando maestria tecnica e sensibilità per l’inatteso. Il suo approccio fotografico alla città la distingue dagli autori a lei contemporanei e le molteplici influenze, da John Cage a Henri Matisse, passando per il coreografo Merce Cunningham e il cinema sperimentale, hanno nutrito e vivacizzato la sua pratica. Introdotta alla fotografia dal padre, la Crane ha scoperto le innovazioni teoriche e formali delle avanguardie europee durante i suoi studi al Mills College tra il 1945 e il 1948. Ciò l’ha spronata a dedicarsi alla pratica sperimentale dalla metà degli anni ’60, quando è entrata a far parte dell’Institute of Design di Chicago, sotto la guida di Aaron Siskind. Negli anni Sessanta, le teorie della Nuova Visione Europea, diffuse negli Stati Uniti da Làszlo Moholy-Nagy e Gyôrgy Kepes a partire dalla fine degli anni Trenta, avevano ancora una forte influenza fra gli studenti dell’Istituto, ma Barbara Crane aveva già scoperto quei testi prima dell’arrivo a Chicago, durante la sua formazione iniziale.
L’idea che l’astrazione formale, attraverso un ordine compositivo strutturato ed equilibrato, potesse essere la risposta a un mondo sempre più caotico, è portante in tutto il lavoro della fotografa americana, che, diffidando delle posizioni preconcette, ha sempre difeso l’idea di un’arte che dovesse interrompere le aspettative e le abitudini delle persone, agevolandone l’autonomia di pensiero critico ed analitico. John Rohrbach, curatore di Fotografia presso l’Amon Carter Museum di Fort Worth, Texas, dove lavora dal 1992, ha affermato che la Crane ha trascorso la sua carriera esplorando le modalità per sfuggire ai costrutti narrativi che dominano la fotografia, non per esaltare la forma fine a sé stessa, ma per suggerire nuovi modi di comunicare la sensazione di essere nel mondo. La scelta dell’astrazione è uno dei mezzi per evitare di cadere nell’aneddotismo, una scelta atta a rendere il fruitore delle opere più aperto, disponibile a riattivare visioni. La particolarità, per quel che riguarda il lavoro della Crane, ha affermato ancora Rohrbach, è di connettersi comunque a una forma di «documentazione sociale». Questa oscillazione tra approccio figurativo e astrazione rispondeva al bisogno dell’artista di essere a contatto con le persone, e, al contempo, di rinnovare costantemente il suo approccio creativo. Questo contraddittorio costante e produttivo era uno dei pilastri dell’insegnamento di Aaron Siskind nel suo corso di Fotografia a Chicago.
«Non credo alle immagini che pretendono di dare risposte»: in questa frase della Crane è racchiuso il senso di un vocabolario visivo sempre aperto alla sperimentazione, una sperimentazione che interroga strumenti e dispositivi, che non si adatta alle regole. L’interesse della Crane a mettere in discussione la dimensione narrativa della fotografia l’ha portata a praticare intensamente, tra il 1971 e il 1976, differenti modalità di collage fotografico. A un occhio superficiale, queste opere danno l’impressione di essere semplici composizioni geometriche; un esame più attento rivela invece una molteplicità di dettagli incrociati, in cui segni, forme umane, architetture, dialogano come in una partitura musicale. Queste creazioni si inseriscono in un contesto noto alla fotografa, che era allora appassionata del minimalismo di John Cage e della musica reiterata di Philip Glass, dei mosaici fotografici di Ray K. Metzker e dei montaggi di Robert Heinecken. Fin dalle prime composizioni della serie «Wrightsville Beach», poi proseguite con le immagini di «Baxter Labs», «Repeats» e «Whole Roll», si nota come l’espressione astratta si metta al servizio di uno sguardo strutturale sulla realtà. Il fluttuare dei motivi visivi provoca un continuum che evoca i rotoli di pittura cinese scoperti dall’artista al Metropolitan Museum di New York. L’opera pubblica monumentale «Chicago Epic», realizzata nel 1976 su commissione della Chicago Bank of Commerce, rappresenta un punto culminante in questo senso: il fruitore avrebbe dovuto poter leggere e rileggere l’opera nell’insieme e nel frammento, guardando il tutto, le parti e viceversa, così che ad ogni passaggio di lettura si potessero ricalibrare le possibilità interpretative.
A mio avviso la serie più potente di Barbara Crane è «Neon». Le immagini sono state realizzate mediante una combinazione di doppie esposizioni, con inquadrature strette su riflessi di luci urbane nelle vetrine delle boutique e primi piani di persone mentre escono dai grandi magazzini. Questo protocollo di ripresa, però, non poteva prevedere completamente il risultato finale, legato all’incognita della doppia esposizione sullo stesso fotogramma. Barbara Crane, pur scegliendo e controllando l’inquadratura sui due soggetti, ha accettato, quindi, un margine di casualità, accogliendo l’elemento sorpresa nel risultato finale. Se l’uso dei riflessi dell’illuminazione al neon conferisce una dimensione grafica alle immagini, l’inserimento del ritratto umano cortocircuita le forme, creando un nuovo ed inatteso mélange compositivo, dove il gioco di sovrapposizione degli elementi articola il significato delle immagini, suggerendo contenuti molteplici.
Ritengo che, alla luce attuale e dopo la «resurrezione» di lavori straordinari tenuti stipati per troppo tempo, i diktat di una certa fotografia oggettiva abbiano fatto qualche danno, limitando la lettura di molte opere come formaliste, apolitiche, da demonizzare perché rifletterebbero la sola interiorità dell’artista, anziché permettere meglio la «comprensione del mondo». Davvero è il momento, forse, proprio grazie alle opportunità di rivisitare lavori come quello della Crane, di relativizzare il tutto, di studiare con più acutezza autori ed opere che hanno avuto la prodigiosa capacità di offuscare una certa attitudine alla sola emozione di pancia e ad un credo senza sfumature e mezzi termini.