Katya Ohii accanto alla sua scultura «Voyeur» (2021)

Foto: Omar Golli

Image

Katya Ohii accanto alla sua scultura «Voyeur» (2021)

Foto: Omar Golli

Al Gazometro 17 giovani artisti progettano il passato

La mostra nel parcheggio sotterraneo è una «citazione deviata» di «Contemporanea» di Achille Bonito Oliva, «la più grande rassegna d’arte mai realizzata a Roma»

Nell’inverno 1973-74 avevo cinque anni e mezzo. Tutte le mattine del mondo, autoportato da mia madre, sfrecciavo nel sottopassaggio di corso d’Italia e poi lungo il Muro Torto (di quell’inverosimile paraboloide era rimasto vittima in moto, giusto l’anno della mia nascita, Pino Pascali...). Una certa mattina, per lo stupore delle migliaia di auto-deportati dalle periferie, le Mura Aureliane torreggianti lungo quel toboga apparvero «impacchettate» da un giovane artista bulgaro che, scoprimmo poi, si faceva chiamare Christo. Guardavamo quella meraviglia senza sapere che pochi metri sotto di noi, nel parcheggio di Villa Borghese, si stava svolgendo una mostra rivoluzionaria. Quel gigantesco sotterraneo brutalista, ultimo capolavoro di Luigi Moretti, era stato concepito come uno di 35 parcheggi di scambio per decongestionare il Centro storico, ma rimase purtroppo l’unico realizzato (il più visionario degli architetti razionalisti non fece in tempo a vederlo inaugurato: era morto nel luglio di quel ’73). Prevarrà in loro luogo il progetto concentrazionario dell’asettica Ztl, che trasformerà la Città in un Museo a cielo aperto per turisti, più tanti alveari-dormitorio per noi Calibanoidi forclusi dalle Grandi Bellezze.  

«Contemporanea», inaugurata il 30 novembre 1973, durò sino al febbraio del ’74: era allora, ed è restata sino ad oggi, la più grande rassegna d’arte mai realizzata a Roma. Sebbene figurasse come responsabile della sola sezione «Arte», a concepirla in quegli spazi non giurisdizionali era stato Achille Bonito Oliva su incarico di Graziella Lonardi Buontempo, domina degli «Incontri internazionali d’arte»: la rassegna, nata nel ’70 nei locali barocchi di Palazzo Taverna, che già gli aveva fatto curare una non meno mitica mostra al Palazzo delle Esposizioni («Vitalità del negativo», novembre 1970-gennaio 1971). 

Non si finisce di ammirare la densità e la profondità (è il caso di dire) di quell’intuizione: se nella mirifica Galleria Borghese, al livello del terreno, l’arte nuova, a partire dal Seicento, si era sovrapposta a quella antica, il contemporaneo, anziché ulteriormente sovrapporvisi (con quello che di lì a poco A.B.O. stigmatizzerà come «darwinismo linguistico»), sprofondava sino alle radici archetipiche dell’immaginario e si sottendeva al presente: anziché schiacciarlo sotto la pretesa della propria attualità. A differenza che Oltreoceano non si parlava ancora da noi di Postmoderno ma, se non la parola, la cosa agiva già da un pezzo. 

Da sinistra Ludovico Pratesi, Mattia Voltaggio e Marco Bassan. Foto: Omar Golli

Mezzo secolo dopo, in un tempo tanto meno geniale di quello, chi voglia raccogliere il testimone di questo anacronismo creativo (questo, certo, il senso del «con-temporaneo» nel titolo) non può che ispirarsi a quel palinsesto rivoluzionario. Ha preso il nome di Spazio Taverna, infatti, un gruppo curatoriale composto da un critico esperto come Ludovico Pratesi e da uno giovane come Marco Bassan, dal 2020 attivo negli storici locali del Palazzo. E che ora passa a testare «su strada» i propri concept in forma di una vera e propria mostra: collettiva come quella di mezzo secolo fa, ancorché su scala ovviamente ridotta. Oggi come allora si sprofonda in un parcheggio sotterraneo, quello sotto l’iconicissimo Gazometro dell’Ostiense gestito dall’Eni (anche sponsor dell’iniziativa): la citazione è sottolineata dai filtri azzurrini ai lucernari, che ricordano l’illuminazione al neon adottata da Piero Sartogo nell’allestire gli spazi di «Contemporanea». 

Eppure non è ripresa pedissequa, quella di Pratesi & Bassan, bensì quella che giusto A.B.O. teorizzava allora come «citazione deviata»: perché mentre «Contemporanea» presentava il meglio del passato recente (in mostra figuravano un po’ tutti i protagonisti degli ultimi vent’anni: da Twombly e Rauschenberg a Johns e Warhol, da Boetti, Pistoletto e Paolini a Schifano e Kounellis, non senza gli ultimi gridi di De Dominicis, Agnetti e Prini, o i recuperi degli eclissati Klein, Manzoni, Lo Savio e appunto Pascali), la scommessa di Spazio Taverna è quella di indicare 17 personalità di artisti giovani (davvero tali, cioè sotto i 35 anni) che possano «progettare il passato», per dirla sempre con l’inesauribile copywriting di A.B.O. I loro nomi sono Camilla Alberti, Giulio Bensasson, Benni Bosetto, Ambra Castagnetti, Giovanni Chiamenti, Numero Cromatico, Binta Diaw, Federica Di Pietrantonio, Clarissa Falco, Andrea Mauti, Lucas Memmola, Lulù Nuti, Katya Ohii, Iacopo Pinelli, Matilde Sambo, Alberto Scodro e Agnes Questionmark. Alcuni di loro si sono già incontrati, e presentano fisionomie piuttosto definite (è il caso per esempio di Nuti e Questionmark), altri sono davvero absolute beginners. Cifra tematica comune a quasi tutti è oggi fra le più gettonate, il corpo che cambia come cambiano il paesaggio e l’ambiente: del resto lo sponsor è versato in un business dal brand preterintenzionalmente allusivo come la «transizione energetica»; ma la maggior parte di loro, per fortuna, non la presenta con quella piattezza documentaria e argomentativa che aduggia la koinè ormai prevedibile delle ultime Biennali e Documenta. Le sculture biomeccaniche di Bosetto, Castagnetti, Falco, Questionmark, Scodro e dell’ucraina Katya Ohii, per esempio, arieggiano un’imagery cinematografica in tal senso ormai «classica», fra «Videodrome» e «Tetsuo», mentre le macchine celibi di Pinelli e Di Pietrantonio, come la glass menagerie suggestiva di Matilde Sambo, forse non sono ignare di artiste «nuove», ma ormai affermate, come Elisabetta Benassi e Chiara Bettazzi. Meno direttamente interpellano l’immaginario comune, in ogni caso, e più colpiscono. È il caso della spirale serpentina sinuosamente minacciosa di Lulù Nuti (classe 1988), degli alabastri elegantemente marezzati di Giulio Bensasson (1990), delle radici a rovescio della senegalese Binta Diaw (1995): bellezze cangianti nelle quali a metamorfosarsi è la materia, oltre che la forma. E allora rinnovati ci illudiamo di uscire pure noi, dal sotterraneo: a riveder non le stelle, ahinoi, ma l’inferno suburbano di sempre. 

Clarissa Falco. Foto: Omar Golli

Andrea Cortellessa, 01 luglio 2024 | © Riproduzione riservata

Al Gazometro 17 giovani artisti progettano il passato | Andrea Cortellessa

Al Gazometro 17 giovani artisti progettano il passato | Andrea Cortellessa