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Si è inaugurata alla Galleria Continua, alla presenza dell’artista, la mostra «Neither Nor» di Ai Weiwei (Pechino, 1957) che torna occupando tutti gli spazi interni ed esterni, con opere dal 1995 ad oggi, alcune inedite. Scultore, pittore, architetto, performer, fotografo, attore, musicista, scrittore, editore, attivista per i diritti umani e dissidente, che in Cina ha conosciuto anche il carcere, Ai Weiwei in che cosa si identifica veramente?: «Amo scrivere, mio padre era poeta, ma i poeti sanno esprimersi in maniera più pura, innocente nel tradurre emozioni e sentimenti, mentre io mi sento un po’ confuso, non so dove andremo, forse tra poco spariremo. Mi ritengo quindi più artista».
Il titolo della mostra, aperta fino al 15 settembre, rimanda alla condizione preoccupante di una società sempre più indirizzata a una via binaria «dove tutto è o questo o quello, e invece non è mai così!». A Tim Marlow, direttore del Design Museum di Londra, che gli chiede le ragioni della scelta del Lego per il suo ultimo ciclo di opere ispirato a capolavori dell’arte occidentale, Ai Weiwei spiega: «Il nostro linguaggio è a mattoncini come il Lego, con la differenza che lì ci sono solo quaranta colori mentre il nostro linguaggio ne ha molti di più». La ditta Lego non voleva inizialmente fornirgli quel materiale perché «temeva che volessi farne una dichiarazione politica». E infatti significati politici si insinuano in questi lavori, da Leonardo a Van Gogh, da Rubens a Seurat, grazie a piccoli dettagli ma essenziali, come in «Sleeping Venus with Coat Hanger» dove la gruccia rimanda «allo strumento usato per gli aborti clandestini prima che diventasse legale. Guardare la Venere significa anche esprimere preoccupazioni per i diritti delle donne sul proprio corpo. Le mie fonti di ispirazione non sono mai chiare fin dall’inizio, a volte i significati mi vengono in mente mentre ci lavoro».
Il posto d’onore nella mostra è riservato al grande Lego dell’«Ultima Cena» di Leonardo, sul palcoscenico della galleria, mentre la platea è invasa da «Stolls», serrato incastro di 3mila sgabelli cinesi delle dinastie Ming e Qing fino a formare una superficie omogenea leggermente ondulata («ho bisogno di essere circondato da materiali, mi fanno sentire in vita e per questi panchetti penso a tutti coloro che li hanno usati prima di me»). Nella copia del dipinto leonardesco («Fake» è anche la scritta che campeggia sulla porta dello studio di Pechino, uno dei tre, oltre a Berlino e Lisbona), Ai Weiwei si autoritrae nella figura di Giuda: «La storia di Giuda è quella di un uomo che ha venduto informazioni che portano al tradimento di Gesù. Ciò mi ha fatto pensare che io sono come Giuda, ed è come se io dicessi alle persone: non fidatevi di me. In realtà io sono molto affidabile ma non per un certo tipo di regime».
Tra i Lego, anche la «Gioconda» imbrattata dalle proteste ambientaliste, a siglare lavori che fanno riflettere sul tema della fruizione dell’opera d’arte, ricollegandosi alla performance giovanile, in cui Ai Weiwei lascia cadere un antico vaso cinese: in mostra sono le grandi fotografie dei tre momenti dell’atto («mia madre era molto preoccupata, mio fratello ha scattato le foto, ma abbiamo dovuto farlo due volte e romperne un altro») e la teca con i cocci del vaso: che cosa determina davvero il valore di un’opera d’arte?