«L’arte di punta ha smesso di operare mediante schieramenti e fronti contrapposti [...]. Ormai sono vietati gli assembramenti, si lavora a gruppi di uno» in «gallerie affollate come rifugi antiaerei». È Achille Bonito Oliva che segnala sulle pagine romane del «Corriere della Sera», il 16 marzo 1978, la mostra di Mario Merz alla Galleria dell’Oca, diretta da Luisa Laureati Briganti con Luciano Pistoi e Gian Enzo Sperone. Un allestimento che solleva «salutari discussioni tra gli artisti, critici e pubblico».
Non è un caso che questa mostra abbia scelto Daniela Lancioni, instancabile anima filologica del Palazzo delle Esposizioni, quale seconda tappa di un progetto a lungo termine: l’esordio di «Mostre in mostra» risale all’estate del 2019 ma prendeva le mosse da «Anni ’70. Arte a Roma», alla fine del ’13 già nel Palazzo di via Nazionale.
Se in quell’occasione le mostre ri-mostrate erano episodi celebrati (dalle due storiche proprio di Abo, «Contemporanea» e «Vitalità del negativo», a «Ghenos Eros Thanatos» di Alberto Boatto), già nel ’19 si andava a scavare nelle pieghe di questa storia: dalla prima personale di Giulio Paolini, alla Salita nel ’64, a quella di Luciano Fabro agli Incontri internazionali d’arte nel ’71. Nello stesso 2013, a Venezia, Germano Celant ricostruiva «When Attitudes Become Form» di Harald Szeemann; mentre alla Biennale Massimiliano Gioni, di Szeemann, mutuava l’impostazione outsider.
Diversissime le «attitudes» con le quali si può interpretare questo spirito del nostro tempo: il filologismo celantiano ricorda le edizioni restaurate dei classici del cinema, mentre l’atteggiamento en artiste di Gioni è più simile a remake spericolati à la Brian De Palma. Il temperamento di Lancioni, dicevo, è inappuntabilmente filologico; ma stavolta con un decisivo giro di vite concettuale, perché nel repertorio espositivo della Capitale (ora consultabile in un apposito database sul sito del Palazzo) ha individuato un’archè che è insieme una mise en abyme.
Se la mostra di Merz faceva discutere, nel ’78, è perché quattro suoi lavori coesistevano con una «scintillante pleiade della pittura italiana alla prima metà del secolo», come scrisse Enzo Siciliano: de Chirico (due «Cavalli che s’impennano» dagli insoliti colori scuri e quasi minacciosi), Savinio (una a sua volta minacciosa «Sodome» sulla biblica città in fiamme), Carrà (una marina del ’23 ghiacciata d’azzurri e verdi), de Pisis (una desolata «Natura morta» del ’32), Morandi (bottiglie del ’46 più spettrali del consueto) e, a parziale eccezione, uno studio cubisteggiante di Severini e i verdi avvolgenti delle «Morbidezze di primavera» di Balla.
Per l’antipatizzante Siciliano l’«artigianato quaresimale» di Merz, «profeta nostrano dell’Arte povera», veniva reso «balbettante» da questo schieramento di all star; mentre il simpatizzante Bonito Oliva vi vedeva lo «sforzo d’individuare la grande continuità dell’arte italiana» (l’anno dopo, infatti, scavalcherà tutti col lancio della Transavanguardia).
Ma non si trattava, come scrissero altri, di ricollegare la nuova avanguardia poverista alle prime avanguardie (come, ricostruisce in catalogo Paola Bonani, si era fatto tra fine anni Sessanta e primi Settanta). Bensì, al contrario, quella di trovare in pieno Novecento «eroico» quello stesso «ritorno al museo» (come fra i primi Renato Barilli, allora, indicava proprio in de Chirico il caposcuola: citato infatti nell’impiantito «teatrale» dell’Igloo allestito da Merz nel ’78, il Pictor Optimus sarà il primo «antenato» convocato da Szeemann alla Biennale dell’80), quei brividi gelati di nuova classicità nei quali cercava rifugio, all’indomani delle guerriglie del ’68, l’arte di allora.
Aveva un bel dire, Merz, che i suoi Igloo non avessero connotazioni politiche: un titolo come «Vento preistorico dalle montagne gelate» opponeva una barriera di fascine a un quadro dipinto a onde di colori a loro volta spietatamente freddi; e (rivela Francesco Guzzetti in catalogo) veniva da un angoscioso racconto di Kafka, Il cavaliere del secchio.
Da quelle montagne monitorie all’orizzonte spirava un’aria di tempesta dalla quale i cavalieri coraggiosi dell’avanguardia dovevano trovare ricetto: nel rifugio antiaereo della tradizione, evocato da Bonito Oliva, che l’Igloo di Merz così ben rappresenta. E magari l’insolito assemblaggio associato al suo nome, in quell’occasione, avrà strizzato l’occhio ai Merz di Kurt Schwitters (come quello, distrutto al pari degli altri, che il dadaista in fuga dal nazismo si costruì fra i ghiacci nella Norvegia).
Ma da dove veniva, al tramontare dei Settanta, quel vento di tormenta? Ricorda Lancioni che nel ’77 in via Cavour si apriva una galleria, La Stanza, con l’intento di trovare rifugio dai cortei più violenti di quella stagione (lo stesso avveniva in poesia coi reading del Poeta postumo, ideati da Franco Cordelli al Beat 72). E davvero a volte gli appuntamenti della storia sanno essere di una precisione inquietante: giusto la mattina dopo l’apertura della mostra, in via Fani, il vento del tempo si faceva, per tutti, di un gelo intollerabile.
«Mario Merz. Balla, Carrà, de Chirico, De Pisis, Morandi, Savinio, Severini. Roma 1978. Mostre in mostra»,
a cura di Daniela Lancioni. Roma, Palazzo delle Esposizioni, 29 novembre 2022-26 febbraio 2023