Luccardini, Gaggero
Leggi i suoi articoliC’è in giro una competizione fra gli architetti, che vengono incaricati spesso con l’unico scopo di lasciare il segno. Noi trattiamo la cosa in tono bonario, come fosse un invito a visitare il manufatto trovato. Però poniamo interrogativi che facciano almeno riflettere. La cultura globale e la contemporaneità dell’informazione giocano i loro ruoli. In ogni città si tenta di avere un qualche manufatto dalla forma epocale: matitoni, biscioni, rasoi, schegge, apribottiglie, supposte, caciotte, prismi incubotici e incombenti. L’estetica e il bello sono categorie obsolete. L’etica è superatissima; conta solo l’utile e si misura in denaro. Il bello è confuso con lo stupefacente. Le soluzioni più ostiche rivelano comunque genio e inventiva. Però impressiona la supponenza di molti, l’assenza di responsabilità per le generazioni future e in fondo la superficialità culturale. Viviamo lo stato di fatto. Non c’è spazio per la riflessione, tantomeno per la contemplazione. Ci capitano delle cose e le subiamo, quindi anche le forme delle case e delle città. Non conta l’insieme e nemmeno l’intorno.
Luccardini: Cercare anomalie, mostri, stecche, visionari galleggianti tra le nuvole non è solo divertente e curioso, appagante per il gusto di scorticare il criticabile. S'impara sempre qualcosa dalla gente fuori dal comune: è gente coraggiosa, ma anche determinata, perché è riuscita a convincere molte persone (committenti, controllori, esecutori) che si può fare qualcosa di eccezionale, stravagante. Sono dei geni coloro i quali hanno progettato edifici a-nòmali, manufatti che diventano subito icone, oggetti percepiti dalla gente comune o come simpatici o come antipatici, ma non trascurabili. È proprio su questo meccanismo reattivo che ormai la fabbrica di questi edifici problematici si è raffinata, è diventata una competizione fra architetti, i quali vengono incaricati spesso con l’unico scopo di «lasciare il segno».
Gaggero: Abbiamo in giro per il mondo molti edifici «problematici», organismi cioè che per la loro forma destano inquietudini reattive. Ci sono critici osannanti e critici demolitori e alcuni di loro si sono spinti a descrivere con sufficienza l'anomalo edificio appena inaugurato nella propria città, proprio perché non abbastanza eclatante come altri visti altrove. Ci sono ormai anche gli specialisti del colpo magico d'effetto (qualcuno li definisce archistar): gente che dedica tre quarti del suo progetto a sfidare la legge di gravità o a combinare materiali eterogenei pur di stupire i visitatori. E ci sono visitatori di musei che nei loro racconti ricordano sicuramente il palazzo in cui sono entrati ma non le opere che questo custodiva al suo interno.
L: Nella frenesia iconica, iperbolica, fatua ma travolgente dei selfie e delle istantanee, non manca mai la ricerca di una foto del proprio volto con lo sfondo dell’edificio testé ammirato: era lo scopo del viaggio? Sicuramente era la voglia di acquisire l'eccezione, di farla propria, forse anche di banalizzarla.
G: Per noi la caccia a queste eccezioni è partita da lontano, dai tentativi naïf dei geometri di provincia di imitare le stelle del firmamento progettuale. Queste prime catture già allora ci procuravano un sentimento di tenerezza, benché apparisse con ogni evidenza la corruzione del contorno ambientale in cui erano calate.
L: Ma in questi ultimi trent'anni abbiamo assistito all'espansione massiva di opere architettoniche per le quali l'aggettivo «problematiche» può anche essere un eufemismo. Sarà la cultura globale, la contemporaneità dell'informazione, saranno le autostrade digitali... ma in ogni Paese di questa Terra si tenta di avere un qualche manufatto dalla forma epocale: matitoni, biscioni, rasoi, schegge, apribottiglie, supposte, caciotte, cubi incubotici e incombenti... Qualsiasi oggetto presente in casa o in giardino viene ingigantito fino a diventare la sede prestigiosa di qualche entità che ha i soldi per pagarsela. La competizione globalizzandosi è diventata frenetica nei luoghi dove circola più denaro: Londra, Tokyo, New York, Hong Kong, Parigi, Emirati del Golfo. Nell'immaginario collettivo ormai vale l'equazione: tanti più soldi = edificio più stupefacente, sconcertante. Il che non ha più niente di estetico e tanto meno di etico, ma è solo una trappola per catturare altro denaro.
G: Oggi l'estetica e il bello sono categorie superate. Il che non è proprio sempre vero, perché il bello cerca in qualche modo sempre di spuntare, ma non viene cercato. L'etica è superatissima. Conta solo l'utile, che si misura in danaro. Però, lo stile delle nostre chiacchiere non può essere didascalico come se facessimo una lezione a un gruppo di dame d’altri tempi. Abbiamo di fronte una delle massime categorie di vanesi, disposti a tutto pur di farsi notare. Certo bisogna rispettare tutto quello che fa star su un edificio: organizzare cantieri complessi, portare avanti studi e dar lavoro a tanta gente. Questo è essere comunque capaci professionisti. Ed è assai rispettabile l’inventiva e il genio che c’è anche nelle soluzioni estetiche più ostiche. Ma è impressionante la supponenza di molti, il vuoto della responsabilità per le cosiddette generazioni future e in fondo la loro superficialità culturale. È pur vero che molti attori del palcoscenico del costruire sono in buona fede e imitano quello che vedono e cercano di cavalcare l'onda. Ma sembrano come certi adolescenti che si fanno traviare dai cattivi compagni, pur di essere accettati e godersi il consenso, non importa quanto vero e fondato.
L: Per noi questi progettisti sono come gli atleti di una gara: corrono, saltano, lottano... ognuno cerca la vittoria. A noi interessa la gara nel suo insieme. È come una nuova disciplina sportiva: primeggiare nell'astrusità dell'ideazione. Si tratta di una gara di cervelli, d'immaginazione. Sono sfide che si pagano in soldi, certo; ma che non fanno dormire quelli che le pensano. E forse qualche incubo lo hanno anche quelli che le devono costruire. Fare casseforme, saldature, giustapposizioni che contraddicono la tradizione, l'uso consueto dei materiali può ingenerare dubbi non solo nel manovale ma anche nell'impresa che lo deve gestire.
G: È noto che molti architetti hanno dovuto combattere per vedere realizzati i propri disegni indifferenti alla forza di gravità. Sebbene ci siano grandi studi d'ingegneria che sono orgogliosi di riuscire a far stare in piedi progetti assurdi e ghirigori da incubo.
L: In effetti i nuovi e ardimentosi edifici sono prodotti artigianali. Quando Ieoh Ming Pei progettò la Pyramide del Louvre (ed era il 1983) scoppiò uno scandalo. Si temeva che la piramide, troppo ingombrante, disturbasse per sempre la prospettiva storica. C'era chi non approvava il drastico contrasto antico-moderno. Chi definì la piramide «città dei morti», chi «Disneyland». Oggi una piramide così non si nega a nessuna città, anche se di provincia. Però ci fanno riflettere le diverse classifiche che ogni anno sono redatte sugli architetti «migliori» e quelli «peggiori», perché gli stessi nomi compaiono con punteggi simili sia nella prima categoria sia nella seconda.
G: Nessuno ha tempo per leggerci e poi a nessuno interessa se siamo a favore o contro agli architetti. Viviamo la logica dello stato di fatto. Non c'è spazio per la riflessione tantomeno per la contemplazione. Ci capitano delle cose e le subiamo, quindi anche le forme delle case e delle città: vengono come vengono. Ci tocca viverci dentro. Chi pensa che si possa regolare il cosiddetto «sviluppo» si sbaglia. accade e poi qualcuno si accorge che è successo. Se l’attuale cultura globale funziona così finché non cambia ce la teniamo.
L: Le nostre riflessioni sfruttano l'appeal del kitch e della problematicità. Per me è una bella consolazione e magari induce interrogativi che possono almeno far riflettere. Critico ergo sum, cogito e perciò ci sono anch'io.
G: La cultura delle città contemporanee non ha quasi nulla di organico. È una specie di contenitore dove si può mettere tutto ciò che a tempi medio brevi produce un’utilità misurabile in dollari o in fama più o più o meno riconosciuta e pertanto monetizzabile. Non conta l’insieme e nemmeno l'intorno, a meno che non si traduca in una riduzione o in un aumento dell'utile. In generale ciascuno cerca la ricetta che sembra gli possa rendere di più. Non prova nemmeno a cercare un accordo con gli altri. Recentemente un importante quotidiano parlando degli archistar ha usato il termine «superpoteri» per dire che gli architetti li avrebbero per cambiare in meglio le città. Un’immagine in fondo romantica oltre che infantile, un sogno mediato dai fumetti che vivono in un mondo finto. Quale kriptonite ci vorrà per rendere umano questo modo di pensare?
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