L’artista italiano vivente più celebre al mondo torna a Milano, il luogo di alcuni suoi celebri «delitti». Qui, all’inizio degli anni Novanta, iniziò la carriera del più prolifico e irriverente produttore di burle e di icone neo pop. A sessant’anni suonati, per lui che sostiene di non aver mai inventato nulla e di avere molto copiato, inizia la parte più difficile: sopravvivere a Cattelan.
«Depressione, sfiducia, sconforto, frustrazione, perdita della gioia di vivere (...) Sensi di colpa, rimorsi: paura di essere giudicati, desiderio di cancellare alcuni aspetti di se stessi che risultano angoscianti e opprimenti. Dipendenza affettiva, madre castrante». Il più famoso cultore dell’impiccagione nell’arte contemporanea è Maurizio Cattelan. Forse la psicanalisi (magari d’accatto: a lui piacerebbe molto), che attribuisce a chi sogna persone impiccate i sentimenti sopra elencati potrebbe rivelare lati davvero sorprendenti dell’inconscio di un artista che, da ciò che fa e dice, non sembrerebbe così frustrato o afflitto da sensi di colpa. La mania dell’impiccare o dell’appendere qualcuno o qualcosa a una corda si manifesta periodicamente nella sua produzione a partire dal 1996, quando fa imbalsamare un cavallo e lo appende al soffitto, intitolando l’opera «The Ballad of Trotsky» e in un’altra versione, «Novecento» (in cui l’animale appare con le zampe mostruosamente allungate) conservata al Castello di Rivoli.
Nel 2000, al Migros Museum für Gegenwartskunst di Zurigo, sospende il suo autoritratto a figura intera a un attaccapanni. È vestito con il mitico completo grigio di feltro, uno degli accessori di Beuys, e infatti il titolo dell’opera è un irridente «La Rivoluzione siamo noi». È una delle molte opere che Cattelan ha dedicato al tema della sconfitta e del fallimento (non suo, eh, ma degli ideali, della morale, delle utopie ecc.). Quattro anni dopo i milanesi che passano nella centralissima Piazza XXIV Maggio s’imbattono nelle sculture iperrealistiche di tre bambini impiccati a una quercia. Opera finanziata dalla Fondazione Trussardi, il cui maître à penser per l’arte contemporanea è Massimiliano Gioni, storico complice di Cattelan, sconvolge a tal punto un cittadino che questi si arrampica su un ramo e libera due «bambini» dal cappio prima di piombare a terra e finire all’ospedale.
Nel 2011, quando allestisce al Guggenheim Museum di New York quella che doveva essere la sua retrospettiva d’addio, ci ricasca: «All» è un’unica installazione composta da quasi tutte le opere da lui prodotte dal 1989 a quella data appese «a pioggia» tra le immaginabili maledizioni degli operai addetti al montaggio al soffitto della spirale di Wright.
Che sia stata un’idea sua o di qualcun altro è un colpo di genio: una cascata di cavalli, bovini e cani imbalsamati, sculture di personaggi variamente inquietanti, scheletri giganti, bambini impiccati e altre opere sulle quali Cattelan ha costruito il proprio personaggio, azzerava l’imponenza di una delle meraviglie architettoniche del XX secolo e ne «schiavizzava» l’elemento più funzionale, la rampa a spirale. Da qui i visitatori potevano affacciarsi per vedere da vicino ciò che per molti di loro, sino a quel momento, erano state soltanto immagini generosamente fornite dai media, in fondo i veri «committenti» di Cattelan.
Dopo l’annunciato e non mantenuto ritiro dalle scene, l’artista nato a Padova nel 1961 non ha dimenticato che parlare di corda in casa degli impiccati (forse dai prezzi delle sue opere) fa sempre un certo effetto. E anche adesso che Francesco Bonami, altro suo sodale, autore di un’Autobiografia non autorizzata del suo (ex?) pupillo, ha curato una mostra collettiva intitolata «Lost in Italy» (sino al 2 luglio da Luxembourg & Co. a Londra), l’immagine guida è tutta per lui, ancora impiccato in effigie, con un mazzo di fiori in mano e i capelli ingrigiti dai sessant’anni. Chissà a chi toccherà dal 15 luglio al 20 febbraio, quando Cattelan, sotto il titolo «Breath Ghosts Blind», mostra a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí, celebrerà la sua rentrée milanese al Pirelli HangarBicocca.
«Pendere», in dialetto bergamasco, in territori in cui la parlata conserva il retaggio della lunga dominazione veneta, si dice «pecià zò». Da cui «pécio» o «picio», cioè «membro virile, pene» e per estensione «uomo semplice e sciocco» (in piemontese «piciu», o «picia» per indicare la donna che con i portatori di quell’accessorio esercita la sua professione). Per molti anni Cattelan ha giocato sull’equivoco dell’esserlo (un pécio) o di farlo.
Iconologia della banana
È tutta colpa di Vittorio Sgarbi se siamo finiti a parlare di «pécio»: «La banana attaccata al muro? È un messaggio subliminale: Cattelan ci sta dicendo che non scopa più». Il risultato dell’indagine condotta da Sgarbi è recente: risale al 2019, quando nello stand di Perrotin alla fiera Art Basel Miami apparve una banana attaccata a un muro con del nastro adesivo da imballaggio. L’opera, «Comedian», venne acquistata per 120mila dollari. Deperibile ma anche sostituibile, non patì, si giovò della pubblicità garantita da David Datuna, uno sconosciuto artista che, staccato il frutto dal muro, se ne cibò, immancabilmente filmato da decine di smartphone in un video postato in tutto il mondo.
Cattelan, per l’ennesima volta, dimostrò che nell’arte contemporanea non è necessario inventare qualcosa di nuovo. L’uso di materiale deperibile e di cibo da parte degli artisti è vecchia quanto Vatel, il cuoco-coreografo seicentesco inventore della crema chantilly, senza scomodare Spoerri e i poveristi. Quanto a Sgarbi, che di certe cose pure se ne intende, ci permettiamo soltanto di osservare che, se di allusione sessuale si tratta, occorre tener presente che la banana è stata messa in vendita dallo stesso gallerista, Emmanuel Perrotin, che nel 1995 lo stesso Cattelan convinse (senza troppi sforzi), a indossare un costume che lo trasformava in un gigantesco «pécio» rosa, munito tuttavia di orecchie da coniglio. «Errotin, le vrai lapin» era un riferimento esplicito alla fama di instancabile erotomane, tipo coniglietto della Duracell, del gallerista. Magari la banana appesa al muro non era tanto un’opera autobiografica di Cattelan, ma un riferimento a un’eventuale decadenza sessuale, un quarto di secolo dopo, di Perrotin.
Chissà che cosa muove Cattelan a maltrattare in questo modo i suoi galleristi? «È un grande manipolatore», dice di lui Massimo De Carlo, che dal 1993, da quando gli dedicò una personale, è il suo gallerista di riferimento in Italia. Nel ’99 il suo protégé lo omaggia incollandolo al muro, sollevato da terra, con lo stesso tipo di nastro adesivo che avrebbe utilizzato per la banana. A De Carlo prese un mezzo coccolone, con lieto fine al pronto soccorso. Umberto Raucci e Carlo Santamaria, galleristi a Napoli, nel ’93 se l’erano cavata vestendosi da leoni per tutta la durata della mostra.
Nancy Spector, curatrice della citata retrospettiva al Guggenheim Museum, nel libro-catalogo All (edito da Skira) sostiene che quelle torture non si basano «su una condanna del sistema della galleria». La sua, infatti è una «critica postistituzionale», laddove non si tratta tanto di riappropriarsi, sovvertendone «il potere reificante», di gallerie e musei, «quanto piuttosto di attivare lo spazio espositivo, creare spostamenti di senso tra lo spazio estetizzante dell’arte e il mondo in generale allo scopo di gettare luce su entrambi».
Gli spostamenti hanno contemplato, fra l’altro, l’organizzazione di una «Caribbean Biennale» nel 1999, consistente in una mostra inesistente, per cui i gonzi o semplicemente i ricchi perdigiorno che vi si recarono ebbero modo di assistere ai goderecci comportamenti di dieci artisti (Vanessa Beecroft, Olafur Eliasson, Douglas Gordon, Mariko Mori, Chris Ofili, Gabriel Orozco, Elizabeth Peyton, Pipilotti Rist, Tobias Rehberger, Rirkrit Tiravanija) che svernavano in un’isola caraibica alle prese con un epicureo «esperimento sociale».
Seguì una delocazione della Biennale di Venezia del 2001 in una discarica presso Palermo, dove Cattelan fece costruire a grandezza naturale la mitica scritta «Hollywood» e invitò a un party tra pantegane, corvi, gabbiani e pattume un’eletta schiera di collezionisti caricati su un volo finanziato da uno di loro.
L’arte della fuga
Erano gli anni in cui, va pur detto, Cattelan faceva ancora divertire e sapeva sorprendere. Aveva iniziato con l’arte della fuga, apponendo il cartello «Torno subito» sulla porta chiusa della Galleria Neon di Bologna in occasione, nel 1989, della sua prima mostra personale, rigorosamente priva di opere. Oppure con le lenzuola annodate e pendenti da una finestra del Castello di Rivara, sede della Galleria Paludetto e teatro di un’evasione simulata eppure autentica.
Non meno «evasivo» il progetto presentato alla Biennale di Venezia del 1993, dove, portato da Francesco Bonami nella sezione «Aperto» alle Corderie, affittò il suo spazio a un’agenzia pubblicitaria che vi installò un cartellone promozionale di una nuova marca di profumo. In quel periodo si presentava come il Lucignolo di turno, il ragazzaccio che sbeffeggia Fontana tagliando con il cutter la Z di Zorro (1993) su una tela monocroma o festeggiando il Natale con una luminaria in forma di stella cometa delle Brigate Rosse (1995).
E intanto cominciava a lasciar trapelare le notizie sulle sue origini, un cocktail di verità e bugie. L’infanzia e la gioventù da loser, figlio di un autotrasportatore e di una donna delle pulizie, cresciuto con due sorelle nella cattolicissima Padova, in perenne difficoltà a scuola. Una specie di «Spessotto», insomma, l’amico d’infanzia cantato da Vinicio Capossela. Orfano di madre a vent’anni, dice di avere svolto diverse occupazioni, tra cui l’infermiere all’obitorio. Poi una parentesi d’amore e di lavoro a Forlì, dove comincia a cimentarsi con l’arte. Segue una fuga a Milano e di qui il gran salto a New York. Va a vivere sulla stessa strada in cui abita Francesco Bonami.
Per qualche tempo Cattelan non ha ritenuto di rendere troppo nota un’altra, più normale, occupazione giovanile, quella di designer per la ditta Dilmos. «Cerberino», il tavolino di cristallo disegnato da lui, risale al 1989. Alla Dilmos incontra Lucio Zotti, socio dell’azienda, iniziando così un sodalizio tuttora in atto: la famiglia Zotti (il figlio Zeno è il fotografo di fiducia delle sue opere) gestisce oggi a Milano l’Archivio Cattelan.
Al 1989 risalgono i primi assemblaggi scultorei, ma anche il primo di quella che sarà un’infinita serie di autoritratti. In «Lessico familiare» l’artista ventinovenne si fa fotografare in bianco e nero a torso nudo, le mani disposte a cuore, collocando l’immagine in una di quelle cornici d’argento in cui in genere s’infilano le foto dei matrimoni.
Certo, non siamo ancora ai fasti di «Untitled» (2001), in cui la testa in resina e cera dell’artista sbuca dal pavimento di un museo: il 12 maggio 2010 da Sotheby’s a New York è stata pagata 7.922.500 dollari, quattro volte di più rispetto alla precedente vendita della stessa opera sei anni prima. Del resto, Cattelan asserisce che la decisione definitiva di diventare un artista «senza esserlo» nacque proprio osservando la sua immagine riflessa in una vetrina di design a Milano. Tout se tient.
Tra Benetton e Magritte
Ai tempi della mostra «Anni Novanta», curata da Renato Barilli alla Galleria d’arte moderna di Bologna nel 1991 ed estesa in altre sedi a Cattolica e a Rimini, lo sdoganamento dell’immagine «narrativa» avviato dalla Transavanguardia in pittura e scultura e prima ancora dai fotografi-artisti americani del Metro Pictures, era ormai acquisito. Cattelan espone in quella mostra la sua prima opera/performance di forte impatto mediatico, un tavolo da calcetto con il quale potevano giocare 11 persone per lato. La fotografia con i giocatori impegnati in una partita bianchi contro neri (11 riserve del Cesena contro altrettanti senegalesi della A.C. Forniture Sud, la squadra di calcio fondata dallo stesso artista), fa il giro delle riviste specializzate e non solo.
«Sembra come se molti, dopo aver intuito l’assottigliarsi del confine tra stronzata e opera d’ arte, ci stiano giocando sopra, per confondere ancora più le idee», chiosa per l’occasione Stefano Malatesta, inviato di «Repubblica». Ma è proprio a causa della confusione e dell’eclettismo regnante che per le opere d’arte diventerà sempre più decisivo l’impatto iconico e mediatico. E il giovane Cattelan dimostra di averlo già capito. Come lo avevano capito, in un clima che sarebbe stato sempre più permeato da un’iconolatria pop di ritorno, Jeff Koons e Damien Hirst.
È stato scritto che Cattelan non fa che riprendere il modello Warhol, applicandolo alla società a lui contemporanea: se l’artista americano interpretava la società come succube dal consumismo, il giovane padovano sa di vivere in una società che sarà sempre più dominata dalla comunicazione. Nella competizione dell’arte, vincerà allora il più prolifico creatore di opere «iconiche».
Come dice la giornalista Sarah Thornton, gli artisti nella nuova economia sono oggi tra i marchi più forti del mercato. Solo diventando un brand potrai imporre le immagini che produci, purché siano abbastanza forti. E Cattelan, una volta dismessi i panni di Spessotto, di pécio o di Forrest Gump, si rivela un micidiale mix tra Oliviero Toscani e Magritte. Ha una mostruosa facilità di creare opere da copertina: dopo «Novecento» sarà la volta di «Charlie Don’t Surf» (1997), la scultura del bambino con le mani inchiodate al banco da un paio di matite; poi arriva la «Nona Ora» (1999), il «papa santo subito», quel Karol Wojtyla, il pontefice ex attore nel quale probabilmente riconosceva straordinarie doti di comunicatore, colpito da un meteorite: pare che inizialmente dovesse stare in piedi, poi al duo Cattelan & Bonami venne in mente di spezzargli le gambe e farlo crollare a terra colpito da un masso cosmico.
Poi verrà la fotografia delle mani del fachiro sepolto nella sezione «Aperto» alla Biennale di Venezia del 1999; l’elefante incappucciato come un membro del Ku Klux Klan in «Not Afraid of Love» (2000); «Him», l’Hitler bambino inginocchiato (2001, suo record d’asta con 17,2 milioni di dollari, ottenuto l’8 maggio 2016); «Frankie and Jamie» (2002), i due poliziotti newyorkesi a testa in giù, una doppia scultura esposta da Marian Goodman nel 2002, l’anno dopo l’attentato dell’11 settembre; dei bambini impiccati s’è già detto, ma non di «Hall» (2007), i nove cadaveri in marmo velati come il Cristo di Giuseppe Sanmartino a Napoli; «Daddy Daddy», la scultura di Pinocchio («la favola preferita da Maurizio», ricorda la sorella Giada) affogato in una piscina; «L.O.V.E.» (2010), la mano in marmo di 11 metri tesa nel saluto fascista (ma con il medio unico dito superstite) innalzata in piazza Affari a Milano.
E poi, più recenti, il water d’oro, la banana attaccata al muro con il nastro adesivo ecc. Tomás Maldonado ha scritto: «La nostra è stata definita una società delle immagini, anche se a ben guardare, tutte le civiltà sono state civiltà delle immagini. La nostra è una società dove un particolare tipo d’immagini, le immagini trompe-l’œil, raggiungono grazie al contributo di nuove tecnologie di produzione e di diffusione iconica, una prodigiosa resa veristica e una propagazione a livello di massa». L’uso della ceroplastica e della resina di poliestere da parte di Cattelan e di molti artisti della sua generazione, da Ron Mueck a Patricia Piccinini, ha conferito al «trompe-l’œil» di cui parla Maldonado una dose potentissima di «realtà aumentata». Di qui le reazioni, spesso isteriche, che alcune opere di Cattelan hanno scatenato: hanno il potere virale delle fake news e in più sono tridimensionali, vivono in uno spazio reale e non virtuale.
Il brand e i suoi alter ego
Quello di Cattelan è un linguaggio pubblicitario e in quanto tale è capace di destare attenzione, provocazione e desiderio. Non ha neanche bisogno, per sua stessa ammissione, di inventare nulla. Da De Dominicis ha copiato l’idea degli scheletri giganteschi; da Alighiero Boetti la pratica dell’«autogemellarità» («We», 2010, è un doppio «quasi autoritratto» funebre); persino la famosa scritta «Torno subito» è un’idea vecchia di quarant’anni, risalente a un concerto «per assenza» di Ben Vautier. E anche Andy Warhol aveva preso a farsi rappresentare da un sosia o da un alter ego.
Il primo e più fedele ventriloquo di Cattelan è stato Massimiliano Gioni, che ne interpreta il ruolo in un prolisso spot promozionale, il docufilm di Maura Axelrod «Maurizio Cattelan. Be Right Back», uscito nel 2016. In seguito l’artista che «agisce costantemente come qualcun altro», secondo la definizione della curatrice Laura Hoptman, si è fatto sostituire, in occasione del conferimento di varie onorificenze, dal cantante Elio delle Storie Tese o dai Soliti Idioti. Solo quando gli hanno conferito il titolo di professore ad honorem all’Accademia di Carrara non ha fatto il furbo, probabilmente per rispetto nei confronti del direttore Luciano Massari, lo scultore nel cui laboratorio Cattelan fa realizzare le sue sculture in marmo.
Sempre Laura Hoptman ha scritto che il suo marchio è l’anticreatività. Anche quella spinta agli eccessi, come, nel 1996, il furto di opere di un altro artista esposte in una galleria vicina al De Appel Center di Amsterdam dove avrebbe dovuto allestire una sua mostra («Un altro fottuto readymade» è il duchampiano titolo di quell’opera). L’anno dopo, da Perrotin a Parigi, espose copie perfette di opere di Carsten Höller contemporaneamente allestite nella galleria Air de Paris. Ma può essere ancora più spudorato: sebbene «Love Saves Life» (1995), una scultura composta da quattro animali tassidermizzati per ricreare la favola dei musicanti di Brema dei fratelli Grimm, fosse stata realizzata due anni prima dall’artista polacca Katarzyna Kozyra, è la versione di Cattelan a essersi imposta come quella «originale».
Il motivo è semplice: Cattelan è un brand, la Kozyra è «solo» un’artista. E quando Cattelan ha cominciato a usare animali tassidermizzati (un asino tra i primi, nel 1994) quasi nessuno si accorse che la stessa tecnica era utilizzata, con risultati anche più raccapriccianti, da Jan Fabre o da Thomas Grünfeld. Tutti parlavano invece degli asini, dei cani e dei topi (i primi, una coppia su una sdraio, li propose con successo nel 1997 a Marian Goodman a New York) partoriti dalla fantasia anticreativa di Cattelan.
«Sospeso in prima elementare, ho passato il pomeriggio in un parco a cercare di falsificare la firma di mio padre. È il giorno in cui ho capito che l’inganno paga», ha dichiarato questo fondatore di biennali fasulle, di riviste «copiate» («Permanent Food») o anche originali («Toilet Paper»), cocuratore di mostre vere (la Biennale di Berlino del 2011 e «Shit and Die» a Torino, per Artissima 2014) o assurde; nonché, a New York, della più piccola galleria del Mondo, la Wrong Gallery, in società con il fido Gioni, consistente in una semplice porta vetrata a Chelsea.
Lo schizofrenico felice
Di Cattelan si sa praticamente tutto, al contrario di Banksy. Ultimamente appare più frequentemente in pubblico, forse perché ha capito che delegare la sua presenza ad altri è un po’ cafoncello, come il vezzo di certi calciatori di parlare in terza persona. Gli sono stati dedicati studi di vario tipo e qualità, incluso un profilo psichiatrico (Gioni, comunque, continua a parlare di «schizofrenia felice») e tesi di laurea. «Cattelan non ha dedicato la sua vita all’arte, ma al successo in arte», dice Massimo De Carlo nel docufilm «Be Right Back», che in realtà aggiunge poco o nulla a quanto già non si sapeva.
Per gli amanti del gossip, vi intervengono comunque due sue ex fidanzate, a cominciare dalla conduttrice televisiva Victoria Cabello che tenta disperatamente di commuoversi quando asserisce che lei e lui avevano anche pensato di avere dei figli, ma intanto tiene al guinzaglio un cane forse imbalsamato dal suo ex che però poi resuscita (il cane). Ma non si capisce se l’idea di farsi firmare le mutande da Antonio Banderas sia sua o di Cattelan. Quanto all’altra ex fidanzata, la stilista Victoria (un’altra) Yee Howe, dice che Cattelan le fece per gioco un tatuaggio sul labbro inferiore interno.
La sorella Giada ricorda che una volta confessò al fratello di essere molto infelice e lui le chiese se avesse mai pensato al suicidio. Anni dopo, Giada ebbe la sensazione che il tavolo di formica gialla su cui giace riverso lo scoiattolo suicida dell’opera «Bidibidobidiboo» (1996) somigliasse sinistramente a quello della casa in cui erano cresciuti. Ma questo, a quanto pare, ebbe un effetto catartico. Victoria (ancora!) Armutt affida la sua parte di direttrice del Cattelan Archive di New York all’attrice Rosemary Melene, che interpreta il ruolo della vestale innamorata ma a un certo punto dice anche del suo adorato: «Ha trovato una sorta di formula strana. Più abusa delle persone, più diventa popolare». È vero. Ma il messaggio di questo modesto docufilm è tutto contenuto in una frase attribuita allo stesso Cattelan, quasi un’epigrafe da Spoon River dell’art system: «Sono sempre stato attratto da ciò che si guadagna quando il nome è più grande dell’individuo che lo porta».
Epilogo: chi di paradosso ferisce...
Lo studente candidato all’ammissione all’Accademia di Belle Arti presenta alla commissione il suo portfolio. Vi appaiono due monografiche, una al Louvre e una allo Stedelijk Museum di Amsterdam. Durante l’estate, infatti, ha allestito clandestinamente alcune sue piccole opere alle pareti delle toilette di entrambi i musei. «Maurizio Cattelan ha fatto qualcosa del genere nel 1990, osserva il docente, quando pubblicò una sua opera su una falsa copertina di “Flash Art”». «Ah, confesso di non conoscere quell’opera, ammette lo studente. Ma a essere sinceri io pensavo più a una cosa tipo Banksy».
Come dire: Cattelan, nel 2015, quando più o meno si è svolto l’esame (reale) di cui raccontiamo, per un ventenne era già una specie di pezzo da museo e i cuori dei suoi giovani aspiranti colleghi (ai quali forse era più noto il quasi omonimo presentatore televisivo) ardevano per Banksy & C. Non che Cattelan abbia sbagliato qualcosa. Dopo avere annunciato il suo ritiro dall’attività artistica nel 2011, si è rimangiato tutto, tornando prepotentemente sulle scene nel 2016 con «America», un water d’oro a 18 carati perfettamente funzionante, realizzato per il Museo Solomon R. Guggenheim. A fare ulteriore pubblicità all’opera è stato il suo misterioso furto, perpetrato nel settembre 2019 dal Blenheim Palace in Gran Bretagna dove era esposto temporaneamente. Poi è venuto il «banana job» di Miami.
No, lui non ha sbagliato nulla. Sta semplicemente invecchiando: benone sotto tanti profili, non benissimo nella più ardua impresa, quella riuscita a pochissimi artisti, ossia invecchiare dando un senso non tanto a ciò che si è fatto ma a tutto ciò che di buono porta con sé la vecchiaia. Del resto, persino a Picasso la vecchiaia non è riuscita bene. Quanto a Banksy, ha già superato Cattelan nei record d’asta (23 milioni di dollari per l’olio «Game Changer» del 2020, venduto lo scorso 23 marzo da Christie’s a Londra) ed è più avanti sul versante del marketing, ma anche per lui si fa sempre più duro il confronto con l’arte incubata nella virtualità coatta portata dal Covid-19.
I 69,3 milioni di dollari pagati per «Every Days. The First 5000 Days» di Beeple, non sono solo una cifra pazzesca, ma la clamorosa affermazione di un’arte ubiqua e velocissima e della creatività (vera o presunta) «iperplurale», di fronte alla quale Cattelan e Banksy nella migliore delle interpretazioni appaiono come rispettabili archeohacker e poco più. Di sicuro, ora è un po’ grottesco continuare come fa lui a celebrare l’estetica del fallimento. Cattelan è infatti all’apice del successo (tra l’altro è l’unico artista italiano vivente ad aver partecipato a sette Biennali di Venezia) ed è la dimostrazione vivente che il sistema dell’arte è una specie di corte assolutistica in cui c’è bisogno sia di quelli come lui sia degli artisti ecologisti finanziati da Francesca Thyssen-Bornemisza, del giullare e del sant’uomo. L’ultimo Cattelan è un paradosso che rischia di soffocare chi di paradossi ha campato per una vita. E allora sì, si finisce davvero al museo e nei manuali di storia dell’arte, come uno street artist qualsiasi.
I «PRIMATTORI» di Franco Fanelli
Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore
Mercato e passione: l’anima di una fiera ricca di scoperte, non solo per collezionisti, ma per l’intero sistema dell’arte. Ne parla il direttore Luigi Fassi
A 92 anni l’artista tedesco è uno dei più ricchi e più imitati del mondo. I suoi ammiratori lo indicano come l’unico erede possibile degli antichi maestri, un pittore il cui vero soggetto è la pittura stessa, ma c’è anche chi sospetta che il suo trasformismo stilistico sia una strategia commerciale capace di sfruttare e di estetizzare anche l’Olocausto
Curato da Giuseppe Appella, esce il monumentale Catalogo generale di un artista-umanista «prosecutore di una tradizione rinascimentale»