Laura Lombardi
Leggi i suoi articoliSi dividono le opinioni in merito alle immagini con i loghi degli sponsor proiettate vistosamente sulle facciate di monumenti e di Ponte Vecchio nell’ambito del programma F-Light 2021. Il soprintendente Andrea Pessina e il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt hanno espresso la loro disapprovazione, affermando di non esser stati informati delle modalità con cui le aziende (in particolare American Express) avrebbero comunicato al pubblico il loro supporto; il sindaco Dario Nardella sembra prendere le distanze dall’iniziativa, pur promossa dal Comune stesso, promettendo che si troveranno in futuro altre forme per ringraziare gli sponsor di una manifestazione divenuta ormai annuale.
Dall’altra parte ci sono però giudizi meno severi, che paiono esprimere il concetto de «il re è nudo»: ovvero, è inutile fare i puri, senza gli sponsor non si farebbe nulla ed è quindi giusto riflettere anche su questo aspetto. Con questo tono si sono espressi il 13 gennaio sul «Corriere fiorentino» Sergio Risaliti, direttore artistico della manifestazione F-Light realizzata da Mus.e, e su «Repubblica» Marco Belpoliti. Quale ruolo deve rivestire lo sponsor e quale forma di riconoscimento si può proporre in alternativa a questa? Lo abbiamo chiesto ad alcuni esperi del settore.
Oliviero Toscani, celebre fotografo e pubblicitario, dichiara: «Certo anche i Rucellai o i Medici mettevano il loro loghi, ma questi sponsor di oggi non hanno la minima idea! Altro che fare queste luminarie con i loro nomi. Devono tirar fuori i soldi e rivolgersi agli artisti, fare il loro vero lavoro di mecenati e non inquinare il mondo con queste (lo scriva pure) cagate. La gente del marketing non ha fantasia in cultura. La loro funzione ha un senso se produce arte e cultura, altrimenti è solo ignoranza».
Per Michele Mariani, direttore creativo ed esecutivo del gruppo Armando Testa (Torino, Milano e Los Angeles): «La convivenza tra marchi commerciali e contesti urbani, non è nuova e nel corso degli ultimi anni ha avuto narrazioni, accelerazioni e rappresentazioni molto diverse. Tutti i brand e in particolare quelli della moda sono alla continua ricerca di strategie differenzianti per guadagnare visibilità e notorietà. Gli esempi di Gucci con i murales cittadini e la strategia di Bottega Veneta degli ultimi anni vanno in questa direzione. Questa convivenza è ormai accettata, nessuno si scandalizza della presenza dei brand negli spazi urbani, ma in un momento storico in cui la sensibilità di tutti è aumentata, i cittadini rimangono giustamente molto attenti nel valutare la creatività, la misura, la rilevanza e la pertinenza di queste operazioni. Soprattutto se questi interventi sono concepiti su spazi e monumenti affettivamente sensibili.
Se le marche vogliono partecipare alla vita dei cittadini, devono farlo con attenzione e con intelligenza, stabilendo con loro un patto onesto e trasparente. Ad esempio, secondo modalità per cui la notorietà viene garantita in cambio di strategie migliorative del contesto urbano. Così orientando la discussione non solo sulla visibilità del marchio, ma su quello che il marchio sta facendo per la comunità. Quello che i cittadini non tollerano più, in questa come in tutte le altre forme di comunicazione, è un’invasione arrogante, un esercizio muscolare fine a sé stesso, privo di creatività e di rispetto.
Proiettare un logo su un capitale iconografico come Ponte Vecchio o su un palazzo del Brunelleschi rischia di diventare scandaloso non tanto per il principio, ma soprattutto per il risultato. Armando Testa ci ripeteva continuamente quanto fosse importante mettersi dalla parte di chi guarda. Entrare con gentilezza nelle case delle persone, e se possibile stupire l’occhio, sorprendere il cuore, divertire la mente. Un allenamento al rispetto del pubblico che era validissimo ai tempi di “Carosello”, ma che rimane decisivo anche in tempi di comunicazione fluida come quelli attuali».
Secondo Pietro Verri, direttore creativo dell'agenzia torinese Comunico: «Nel nostro Paese i finanziamenti pubblici alla cultura e ai beni culturali sono scandalosamente inadeguati, quindi l'intervento dei privati è sempre stato molto importante e va assolutamente incoraggiato. Personalmente preferisco il mecenatismo puro: finanziare restauri, recuperi o iniziative culturali in modo istituzionale, quasi dietro le quinte, per veicolare l'impegno e i valori di un'azienda piuttosto che cercare di "vendere" qualche cosa. Quindi organizzare iniziative a latere, o creare percorsi espositivi in spazi appositi che spieghino il senso dell'impegno dello sponsor.
Diverso, a mio parere, è il caso di Bottega Veneta e della Grande Muraglia, non un logo ma un’installazione molto audace e impattante, con un messaggio positivo e aggregante: un’idea forte e appropriata per un marchio di moda, una spettacolare operazione di comunicazione più che una sponsorship. Non conosco i retroscena della vicenda fiorentina, ma è evidente come ci siano stati dei fraintendimenti tra le varie parti. Le aziende sponsor presentano delle proposte, belle o brutte, opportune o no: queste possono essere tranquillamente respinte o accettate in base alla sensibilità dei decisori. Ma se viene dato un imprimatur, poi non si può accendere una polemica così furibonda ex post, perché in questo modo, anziché attrarre gli investimenti dei privati, li si respinge. In questo caso visto il contesto avrei cercato altre forme, più discrete e istituzionali, per dare visibilità allo sponsor ma (e concordo con il sindaco Nardella) è fondamentale che queste discussioni avvengano prima, durante il processo di approvazione».
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