Guglielmo Gigliotti
Leggi i suoi articoliL’artista Cesare Pietroiusti dal luglio 2018 a giugno 2022 è stato presidente dell’Azienda speciale Palaexpo che gestisce, per conto di Roma Capitale, il Palazzo delle Esposizioni, il Macro – Museo d’arte contemporanea di Roma, alcuni ambienti all’Ex Mattatoio e il Museo delle periferie. Al momento del passaggio delle consegne al nuovo presidente Marco Delogu, chiediamo a Pietroiusti un resoconto di quanto fatto e una riflessione sulle difficolta che si incontrano nelle grandi istituzioni pubbliche dell’arte.
Mi può sintetizzare in una sola formula la sua esperienza al vertice di Palaexpo?
Molte soddisfazioni, alcune frustrazioni, molta fatica, parecchie rinunce.
Quale visione è riuscito ad imprimere al microcosmo di Palaexpo?
Il mio tentativo (in generale condiviso dal CdA che ho presieduto) è stato quello di impostare un programma articolato che, utilizzando al meglio le caratteristiche dei vari spazi dell’Azienda, mettesse al centro il contemporaneo, come richiesto dall’Amministrazione che ci aveva nominato. Ho interpretato queste istanze secondo alcune chiavi: l’importanza cruciale del concetto di ricerca; l’incontro fra ricerca artistica e ricerca scientifica; la creazione di un territorio di scambio e contaminazione tra le arti, in particolare tra i vari linguaggi delle arti performative; il museo come luogo di sperimentazione per nuovi modelli espositivi; la contaminazione della proposta museale con la formazione (tanto scolastica che universitaria che post-universitaria); l’opportunità di offrire agli artisti risorse, spazi e tecniche per la realizzazione di nuove produzioni.
Quali sono i risultati maggiori della sua presidenza?
Non saprei da dove cominciare… In questi quattro anni abbiamo fatto moltissime cose diverse. L’allestimento di «Manifesto» di Julian Rosefeldt, a parte la bellezza del lavoro e il fascino di Kate Blanchett, ha stravolto e reso quasi irriconoscibile l’architettura pesantemente connotata di Palazzo delle Esposizioni. Il teatro anatomico al centro della mostra «Sublimi anatomie» ha dato la possibilità di far diventare il museo (come si vede bene sul sito-catalogo) un luogo di lezioni teoriche, performance, laboratori, classi di disegno o di danza, prove teatrali, e ha reso evidente che qualsiasi insegnamento può ricevere un contributo determinante dal contesto in cui si esplica.
La mostra «Il corpo della voce», oltre ad avere dato nuovo valore a tre personaggi meravigliosi come Carmelo Bene, Katy Berberian, Demetrio Stratos, ha centrato in modo molto efficace un punto che sta al confine tra l’anatomia e l’espressività, tra il fisico e il simbolico. Il «Museo per l’Immaginazione Preventiva» e l’idea del museo come rivista tridimensionale, alla base del progetto di Luca Lo Pinto per il MACRO, è secondo me uno dei più interessanti esperimenti meta-museali del mondo, e può continuare a dare molto prestigio alla citta di Roma, almeno all’interno delle istituzioni di arte contemporanea.
Il Master in Arti Performative partito al Mattatoio, prima in collaborazione con Architettura di Roma 3, e poi con l’Accademia di Belle Arti di Roma, è anch’esso un progetto quasi unico nel suo genere, ed è un’eccellenza riconosciuta: molti giovani si aspettano prossime edizioni. Il progetto di residenze di ricerca e produzione «Prender-si cura» ha finalmente dato alla Pelanda un’identità che il pubblico, soprattutto giovanile, sta evidentemente riconoscendo, in una sinergia fra laboratori di formazione, periodi di lavoro intensivo degli artisti, collaborazioni e co-produzioni con altre istituzioni e, ovviamente, presentazioni al pubblico di performance.
Le numerosissime, e crescenti, presenze alle presentazioni dei progetti di «re-creatures» degli ultimi mesi (Simone Aughterlony e Jen Rosenblit, Motus, Riccardo Benassi, MP 5 & Alessandro Sciarroni, Ra Di Martino, Invernomuto, Alterazioni Video, Katerina Andreou, e molte altre e altri) sono per me l’indice di un esperimento pienamente riuscito. E poi le emozionanti (ormai uniche in città) proiezioni in pellicola 35 millimetri nella sala cinema di Palazzo, il grande lavoro del Laboratorio d’Arte e della didattica, ecc.
Naturalmente tutto ciò non sarebbe potuto accadere senza l’impegno di un grande gruppo, e in primo luogo delle curatrici e dei curatori che hanno operato all’interno dell’Azienda in questi quattro anni. Vorrei citarli, e ringraziarli qui: Daniela Lancioni, Paola Bonani, Francesca Oppedisano, Laura Perrone, Ilaria Mancia, Luca Lo Pinto con la bellissima squadra che è riuscito a mettere insieme al MACRO, Angel Moya Garcia, Marco Berti, Giorgio De Finis. E i molti altri, che hanno dato il loro contributo una tantum, come Anna Cestelli Guidi, Andrea Carlino, Anna Luppi, Claudio Libero Pisano, Alessio De Navasques, Vincenzo Napolano, Fabrizio Rufo, Stefano Papi, senza dimenticare Sarah Cosulich e Stefano Collicelli che hanno costruito con noi forse la più bella edizione della Quadriennale di sempre.
Quali sono i nodi da sciogliere per il futuro dell’Azienda speciale? Quali i problemi maggiori che ha incontrato?
È un argomento che richiederebbe un serio approfondimento. La cosa che più di tutte mi ha sorpreso (in negativo) è non soltanto l’inefficienza della macchina amministrativa di Roma (certi uffici del Comune non rispondono mai…), ma soprattutto la quantità di vincoli, ostacoli, lungaggini, permessi, costi amministrativi insensati. Tutto ciò frena moltissimo le potenzialità di un’Azienda come Palaexpo, che avrebbe i mezzi, gli spazi, le persone, per far diventare Roma, e non esagero, un luogo di importanza planetaria rispetto alla ricerca artistica contemporanea.
Poi, lo so che suona politicamente scorretto, ma l’appiattimento «sindacale» non meritocratico rispetto a chi fa di più e meglio, è una piaga che, oltretutto, avvelena il clima. Infine, probabilmente qualcosa è anche mancato nella nostra comunicazione. Forse a causa della complessità della visione nel suo insieme, forse a causa delle differenze fra i diversi spazi, mi sembra che non siamo riusciti a raccontare bene tutto quello che abbiamo fatto. In materia di comunicazione bisogna guardare alle nuove tecnologie in maniera più aggressiva, affidandosi a persone più giovani, a metodi sorprendenti, inediti, contro-intuitivi (per esempio fare una mostra che, come «Condizione Assange», «apre per rimanere chiusa»).
Il nuovo CdA, presieduto da Marco Delogu, trova un programma di mostre ed eventi già avviato, dalla grande mostra su Pasolini ad ottobre, alle produzioni di «Prender-si cura», progetto di residenze a La Pelanda all’Ex Mattatoio: sarà un passaggio di consegne soft?
Non sta a me dirlo… Ovviamente me lo auguro, e di sicuro la mostra su Pasolini sarà una bella occasione di collaborazione fra vecchio e nuovo presidente. D’altra parte credo che Marco Delogu abbia caratteristiche, reti di conoscenze, e modalità di lavoro, che possono imprimere a Palaexpo una ulteriore spinta, contribuendo a far accadere cose, non soltanto nella programmazione, rispetto alle quali il nostro CdA ha avuto difficoltà. Una su tutte: fare finalmente partire un grande e ambizioso progetto sulla ristorazione nei «Rimessini» del Mattatoio.
Quali consigli darebbe al suo omologo in carica da fine giugno?
Gli ho già chiesto un appuntamento a quattr’occhi in proposito… Qui posso dire questo: se, di fronte a vincoli e normative incomprensibili, Marco Delogu vorrà far partire una grande campagna per la semplificazione legislativa a vantaggio dei musei e dei luoghi di cultura pubblici, prometto che, in base alla mia esperienza di questi quattro anni, darò il mio contributo.
Cosa ha imparato, anche personalmente, da questa esperienza?
Esperienze e responsabilità inedite insegnano a essere meno presuntuosi. Oggi so che lavorare in ambienti e con modalità «informali», in cui ho sempre agito, è alla fin fine più facile che lavorare nelle istituzioni (anche se queste posseggono risorse economiche, spazi ecc.).
Quali saranno i suoi prossimi impegni nell’era post-Palaexpo?
Sono molto felice di tornare a insegnare allo IUAV di Venezia già da ottobre. E poi, dopo molti anni, sto ricominciando a lavorare con le gallerie. Ho un grande desiderio di tornare a fare l’artista a tempo pieno. E, del ritorno, direi «giovanile», di questa energia desiderante, devo essere grato a Palaexpo.
Marco Delogu (Roma 1960), ha fondato un teatro (Argot), dove ha collaborato con i maggiori attori e scrittori che si sono affermati a partire dai primi anni ’80, ha dato vita a una casa editrice dedicata alla fotografia («Punctum»), ha curato Festival e molte mostre dei maggiori fotografi contemporanei, è lui stesso celebrato fotografo, nel 2015-19 ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Londra, e, da fine giugno, è nuovo presidente dell’Azienda speciale Palaexpo (Palazzo delle Esposizioni, Macro, ambienti al Mattatoio, Museo delle periferie). I quattro consiglieri sono Ivana Della Portella, Mino Dinoi, Francesca Barbi Marinetti e Manuela Veronelli.
Chiediamo al neo-presidente: lei è figlio di sardi ma è nato a Roma. Dove si sente a casa?
Sono nato a Roma e sono felicissimo di vivere e lavorare in questa città bellissima, dove i miei genitori arrivarono negli anni ’50, trasferendomi un grande insegnamento: il grande rispetto e valore dell’istruzione, della sanità e della cultura pubblica, insieme a una grande curiosità per le persone con passioni autentiche e un certo fastidio per stili di vita preconfezionati e banali. Mia madre era una studiosa delle tradizioni della cultura popolare sarda, mio padre un medico che ha lavorato nel campo della sanità pubblica ed è stato tra i padri della riforma sanitaria, protagonista insieme a Giulio Maccacaro e Franco Basaglia di una stagione importante della medicina italiana. Roma gli ha dedicato una via.
Oggi Roma chiama lei. Cosa ha provato al momento della nomina da parte dell’assessore alla Crescita culturale di Roma Capitale Miguel Gotor?
Gioia. E con un tempismo incredibile ho pensato: tornerò a vivere a Roma dopo sette anni, il prossimo primo settembre, e farlo come Presidente di Palaexpo è fantastico. Insieme alla gioia è arrivata la consapevolezza della complessità che comporta la gestione di una macchina così articolata, e il relativo senso della responsabilità.
Mi descriva la sua visione di Palaexpo.
Al momento posso dirle che le quattro componenti dell’Azienda speciale recupereranno una regia centrale, pur nel rispetto delle specifiche autonomie. Poi voglio che Palazzo delle Esposizioni sia uno spazio abitato, caloroso e aperto, in ascolto della città e del mondo, e con un rapporto forte con le accademie di cultura straniere, che sono una grande risorsa cosmopolita della nostra città.. Mantenendo la centralità dell’arte, penso a un «Palazzo» come a una casa di tutti i linguaggi, dove vorrei che si incontrassero molti scrittori, filosofi, uomini di teatro e di cinema, in un’ottica che ho messo in atto anche all’Istituto Italiano di Cultura di Londra.
Credo fortemente che Roma sia una città che ha espresso e continui a esprimere molto nel campo dell’arte e della cultura contemporanea (penso alla Bachmann, a Antonioni e Bertolucci, e a Boetti, Kounellis, Schifano e Twombly, oltre a grandi scrittrici e poetesse come Patrizia Cavalli, Elsa Morante e Amelia Rosselli, e penso logicamente a Pier Paolo Pasolini, e a moltissimi altri), e vorrei togliere quella patina di città «ingessata e polverosa» che spesso è attaccata alla nostra città. Penso a Roma come a una città che debba ritornare a essere protagonista assoluta della cultura contemporanea, partendo da un grandissimo retroterra. E in questo vedo il Palaexpo, per moltissimi motivi, il fulcro di questa operazione di rilancio.
E ho un piccolo sogno: che al «Palazzo», così come al Mattatoio, al Macro e al Museo delle periferie, si venga senza bisogno di consultare il programma, solo perché si è certi che oltre alla bellezza dei luoghi si troverà sicuramente una mostra, un talk, un film, e una serie di servizi di grandissima qualità. Ancora: fuggirò tanto gli episodi culturali di nicchia, quanto le grandi mostre blockbuster. Bisogna evitare di cadere nel facile e nel ridicolo.
Farà tesoro per questo anche della fotografia?
Sì, ma di una fotografia che dialoghi con l’arte contemporanea, con la letteratura, la società, non una fotografia che guardi a modelli del passato o che non sappia registrare i cambiamenti del mondo culturale e si chiuda in sé stessa.
Sarà assillato dai grandi numeri?
No, dalla qualità. I grandi numeri vanno perseguiti, ma non con mostre di poca qualità basate su grandi nomi, o kermesse fotografiche preconfezionate. Non dimentico che gli spazi dell’Azienda speciale Palaexpo sono pagati con i soldi delle tasse dei cittadini, e a questo impegno voglio rispondere con rigore, qualità e molte idee, spesso sorprendenti.
Tornerà l’arte antica a Palaexpo, come da sua tradizione?
Mi piace immaginare a Palazzo delle Esposizioni mostre d’arte classica, ma non fatte solo di capolavori, bensì mostre originali, di grande qualità, con un pensiero alla base, capaci di dialogare con il contemporaneo. Mi piacerebbe portare L’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, e esporlo accanto a opere che a questo lavoro facciano riferimento, così come mostre che comprendano arte del passato e dell’oggi. I grandi del ‘900, da Mondrian a Rothko, e moltissimi artisti contemporanei, sono stati e sono appassionati cultori del classico. E mi ricordo ancora quando, molti anni fa, incontrai Cy Twombly e Dieter Kopp in una libreria antiquaria di Roma, impegnati a cercare «prime edizioni» di libri d’arte classica.
Il presidente uscente, Cesare Pietroiusti, ha offerto la sua amicizia e i suoi consigli.
Che accolgo con piacere. C’è sintonia con la precedente gestione, come sta ad attestare il fatto che la prima grande mostra che inaugurerò da presidente ad ottobre, «Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo», in parallelo con il MaXXI e Palazzo Barberini, è curata dall’ex presidente Pietroiusti, dall’ex vicepresidente Clara Tosi Pamphili, oltre che da Giuseppe Garrer. Con quest’ultimo ho collaborato benissimo per la mostra «Pasolini, ipotesi di raffigurazione» da me curata con la collaborazione di Andrea Cortellessa e Silvia De Laude nell’inverno scorso, all’Eur dove Pasolini viveva. Non solo, in occasione di questa mostra ci saranno alcune «digressioni» che comprenderanno, tra l’altro, le fotografie che Plinio De Martiis dedicò nel ’51 alla periferia romana, e quelle di William Klein realizzate nel ’56, quando venne a lavorare con Fellini come assistente alla regia per «Le notti di Cabiria». Lì scoprì Roma, conobbe Pasolini e fece foto meravigliose.
Come artista lei ha fotografato cardinali e detenuti, cavalli, nature morte e Roma di notte: cos’è l’immagine per lei?
Domanda molto complessa. Come fotografo è il momento di un piacere profondo, raro. Quando preparo una fotografia, sento crescere una tensione emotiva che sale verso questo piacere, che non so come definire… potrei usare molte citazioni per parlare di ciò, del suo protrarsi o della sua assenza. Il fatto che non sia mai scontato è un altro fattore molto interessante.
Una piccola estasi?
Piccola, sì, e alle volte piccola ma molto prolungata. Ma per fortuna le piccole estasi non riguardano solo le mie fotografie ma anche pezzi di mondo che mi circonda: l’osservazione di paesaggi, nuovi o consueti, di persone amate, e di opere di vari linguaggi, dall’arte alla letteratura.
Ha parlato con il direttore del Macro Luca Lo Pinto?
No, ma ci incontreremo presto. Ci siamo visti solo in occasione del mio saluto come presidente. Ho lavorato al Macro in molte occasioni e in anni diversi, ed è un museo a cui tengo moltissimo. Mi piacerebbe avere un dialogo serrato con il museo, molti scambi nell’ambito di una serie di linee guida in comune. Come le ho detto precedentemente, credo che vada rafforzata la «rete» di Palaexpo.
È in elaborazione, da parte del comune, l’accorpamento di Palaexpo e Zetema, la società partecipata al 100% da Roma Capitale, che gestisce il Sistema Musei Civici e altre realtà della Sovrintendenza capitolina. Non teme una limitazione delle prerogative di Palaexpo?
Non ho la cultura del sospetto e conseguentemente non credo alla limitazione delle prerogative. Credo al lavoro di squadra, a identità forti che costruiscono una rete. Credo che Palaexpo debba lavorare in costante confronto con la politica culturale della città, che debba essere una piattaforma che intercetti novità e sorprese da molti mondi e linguaggi, e riesca a condividerli con le molte realtà, pubbliche in primis e anche private, che lavorano con rigore e passione nella nostra città.
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