Una veduta della mostra «Cerith Wyn Evans. No realm of thought… » (2023), Parigi, Marian Goodman Gallery. Cortesia dell’artista e Marian Goodman Gallery. Foto Rebecca Fanuel

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Una veduta della mostra «Cerith Wyn Evans. No realm of thought… » (2023), Parigi, Marian Goodman Gallery. Cortesia dell’artista e Marian Goodman Gallery. Foto Rebecca Fanuel

Wyn Evans: «La mia idea di negazione è una rilettura dei testi buddhisti e di Stella attraverso Fontana»

Nella sua personale alla Marian Goodman Gallery di Parigi l’artista gallese fa dialogare le opere con l’architettura dello spazio. È l’occasione per fare il punto sulle sue recenti ricerche

Cerith Wyn Evans, artista gallese classe 1958, in Italia è noto per la sua personale all’HangarBicocca nel 2018, quando aveva riempito lo spazio aereo delle Navate calando dal soffitto grandi installazioni al neon. Ora la sua gallerista, Marian Goodman, gli ha dedicato due personali, nelle sedi di New York e Parigi, che vanno ad affiancare la terza, in Galles, al Mostyn di Llandudno. La mostra francese è l’occasione per fare il punto sulle sue ricerche più recenti.

Come le è venuto in mente il titolo di questa mostra, «No realm of thought...»?
È qualcosa che ho in mente da un po’ di tempo. La citazione stessa, se così la si può chiamare, affonda le sue radici in una versione del Sutra del cuore buddhista. Un discepolo del Buddha riceve una lezione sull’idea di negazione, o negatività, sulla forma e sull’antiforma: «No realm of thought… no field of vision» [«Nessun regno del pensiero... nessun campo visivo»]. Sono affascinato dalle varie traduzioni di questo testo: in sanscrito, in giapponese... Così ho intitolato  «… no field of vision» la mia personale nella sede newyorkese della galleria, che si tiene in contemporanea con quella di Parigi. Solo riconoscendo l’esistenza di questo spazio negativo ci si può allontanare dalla dialettica schiavo-padrone, cambiandone la dinamica e i ruoli. In un certo senso l’opera «improvvisa» nello spazio negativo. L’insieme «Neon After Stella», ispirato ai «Black Paintings» di Frank Stella, libera le famose campiture piatte dell’artista americano aprendole a un’altra dimensione, oltre lo spazio bidimensionale del quadro. È come una rilettura di un testo buddhista e della pittura di Stella attraverso i «Concetti spaziali» di Lucio Fontana...

Nella serie «Neon After Stella», gli spazi negativi tra i tubi riprendono proprio le linee delle composizioni di Stella per creare una sorta di spazio «a luce nera»...
Stella prendeva una tela nuda su cui dipingeva semplicemente delle linee nere, lasciando trasparire la tela, in riserva, tra gli interstizi risultanti. Sono state queste linee negative che ho rappresentato sotto forma di tubi al neon. Per aggirare la questione della spazialità abbiamo appeso le opere al soffitto usando sistemi industriali. I riflessi stessi delle opere e dei visitatori sulle finestre della galleria sono molto importanti per me.

Perché ha scelto i «Black Paintings» di Frank Stella? È un po’ un paradosso per opere a luce bianca!
Certo, c’è una sorta di contraddizione: io faccio il contrario, ma sto improvvisando in una zona che sta tra il sì e il no. Secondo il Sutra del Cuore, «tutte le forme sono non-forme. Nulla accade, ma non proprio nulla». Questo è il principio della doppia negazione.

Quando li ha visti per la prima volta?
Nelle riviste, quando ero bambino. All’epoca si trattava di storia dell’arte recente: i primi «Black Paintings» risalgono al 1958, l’anno in cui sono nato! Una coincidenza significativa, come tutte le coincidenze... Li ho poi rivisti a New York, ma molti anni dopo. Li associo all’attenuazione di una forma pittorica apparsa alla fine del periodo dell’Espressionismo astratto americano, che si ritrova nella musica di Morton Feldman, nei primi lavori di Philip Guston, in Barnett Newman o Ad Reinhardt. Li collego anche al modo in cui Gilles Deleuze parla della linea, in particolare di quella di Paul Klee. Considerare la linea come un linguaggio, come una passeggiata, come un musicista jazz che improvvisa in questo calderone...

Il colore tenue di queste luci al neon sembra evocare la luce del giorno...
Il neon è una miscela di gas che brucia e diventa rossa. A renderlo bianco è la polvere all’interno del tubo. Il colore verde o giallo di alcune luci al neon è solitamente dovuto alla presenza di gas argon... Se un tubo si rompe, il neon fuoriesce nell’aria e ritorna alla natura. Un principio che contiene qualcosa degli insegnamenti buddhisti: questo gas esiste nell’atmosfera allo stato naturale, non può essere né fabbricato né distrutto. Può perdere la sua energia, ma niente di più. Per la mostra ho scelto un grado di colore che corrisponde alla luce del giorno, neutro, simile a quella del white cube nelle gallerie. Una sorta di non-colore... È un po’ come usare il carattere Helvetica, comune nei libri per bambini: si ha l’impressione che sia relativamente neutro, mentre è carico di significato.
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I visitatori che si aggirano tra le opere lasciano dietro di sé quelle che sembrano scie, ombre o immagini fantasma, che rimandano ai loro riflessi nelle finestre della galleria. Il suo lavoro sembra popolato da fantasmi. Mi sbaglio?
Sono completamente d’accordo con lei. Sono state scritte molte pagine di letteratura sul pensiero di Marcel Duchamp e sul modo in cui chi guarda partecipa alla creazione. Personalmente tengo conto di ciò che i corpi dei visitatori producono nello spazio: per esempio dei punti di vista differenti di una coppia che viene a vedere la mostra. Per ottenere questo effetto, irripetibile altrove, ho sfruttato la natura di questa bellissima sala al piano terra della Marian Goodman Gallery di Parigi. Gioco con le trasparenze, i riflessi, lo spazio intorno ai nostri corpi spettrali... Emerge un’armonia visiva che si estende oltre il campo visivo. Non è qualcosa di trascendente, al contrario è molto reale, ma rende la nostra visione incerta, la nostra percezione disturbata.

Le tracce di questi corpi in movimento sono il risultato di un fenomeno di persistenza retinica. C’è una dimensione molto cinematografica, come se stessimo guardando un film decostruito. Che cosa ne pensa?
Sarei molto felice se fosse così. In un certo senso, l’opera è influenzata dalla capacità di interpretazione dei visitatori. Una delle cose che ho scelto di esplorare o mettere in discussione è la nozione di interpretazione dell’opera, ciò che essa può richiamare, ciò a cui l’immaginazione la associa. Il visitatore che entra nella galleria può sentire un legame familiare con alcune cose e non con altre. Dopotutto, potremmo pensare che gli algoritmi dei nostri telefoni siano in qualche modo parte del canone buddhista. Il mondo esiste e il mondo è un’illusione... Respiriamo tra questi due poli che non sono opposti o dialettici. Sono in relazione e rinegoziano costantemente la loro posizione l’uno rispetto all’altro. Ma è un’esperienza complessa che è meglio fare in presenza delle opere, piuttosto che parlarne...

Ha esposto un pino in un vaso, il cui titolo, «Still Life», è preso in prestito da uno dei suoi film, «Still Life with Phrenology Head» (1979). Non è forse un modo per giocare con i generi della storia dell’arte: una natura morta, che è anche una scultura, si trova accanto a quadri che in realtà sono luci al neon?
In inglese «still life» ha due significati molto diversi rispetto a «natura morta» in italiano. In primo luogo, designa un assemblaggio, una disposizione di oggetti che opera un continuum tra tempo e spazio. Si pensi alla radicalità delle nature morte di Paul Cézanne. Ma still life significa anche che la vita è ancora lì, in uno stato solido. È una sorta di doppia immagine, come l’anatra-coniglio di Ludwig Wittgenstein. Ovviamente, questo pino non è uno still life: non solo l’albero vive e cresce, ma si muove nello spazio grazie a delle ruote poste sotto il vaso. Il risultato è qualcosa di molto ambiguo: ci aspettiamo che questo albero sia un oggetto radicato nel terreno, immobile, a cui appoggiarsi, mentre invece si muove. Spero che gli Stella al neon aprano un dialogo con questo gioco sulla natura come cultura. Il legame tra loro è in qualche modo forzato nello spazio. E mi piace vedere la luce di queste forme industriali attraverso i rami degli alberi.

Questo pino è una specie di bonsai gigante, con l’aggiunta di steli di bambù per guidare la crescita dei suoi rami...
Dall’età di 12 anni vivo principalmente in campagna, nel Norfolk, dove ho un grande giardino, uno dei grandi amori della mia vita. Sono molto interessato all’estetica giapponese, anche se ovviamente non ho creato un giardino giapponese, con tutto quel kitsch... In Giappone, tuttavia, le modalità con cui si fa giardinaggio, si abbinano le piante, si dispongono gli alberi nello spazio sono formidabili, in un giusto equilibrio tra il selvatico e il domestico... Non c’è nulla di metaforico in questo pino, ma mi è sempre piaciuto salvare gli alberi abbandonati, che spesso erano pini... Il vivaista da cui abbiamo comprato l’albero, vicino a Parigi, mi ha detto che in francese si parla di «tuteur» [palo] a proposito di questi fusti di bambù... Mi ha subito ricordato la scuola, quando si viene puniti per aver sbagliato!

Da un riflesso all’altro... Al piano inferiore, è esposta «Phase Shifts (After David Tudor)», installazione composta da parabrezza danneggiati. Non si tratta di oggetti neutri... Perché questa scelta?
Le ragioni sono molteplici. In un certo senso non hanno valore, nessuno vorrebbe un parabrezza danneggiato, colpito da un sasso o compromesso da un incidente più grave. D’altra parte, si tratta di un elemento che crea una barriera tra l’interno e l’esterno di un veicolo in movimento. Guardare attraverso un parabrezza è un’azione molto familiare. Il suo design varia spesso a seconda del veicolo: un trattore, un’utilitaria, l’auto del papa, un carro funebre, l’auto degli sposi... Anche «il Grande Vetro» di Marcel Duchamp (1915-23) è uno schermo. E il momento in cui questo vetro si è rotto accidentalmente ha rappresentato per Duchamp un’epifania, come il completamento dell’opera. È interessante notare che i «mobiles» di Alexander Calder sono stati chiamati così da Duchamp; uno scherzo molto parigino ad Alberto Giacometti, che realizzava «stabiles». Mi viene anche da pensare che se un cellulare cade, si rompe, proprio come «Il Grande Vetro» di Marcel Duchamp o il parabrezza di un’auto... Le installazioni che espongo sono come punti fermi così come l’albero che si muove nella sala al piano terra della galleria può evocare un vortice, perché anche noi ci muoviamo sul nostro pianeta... Si stabiliscono equilibri e pesi tra questi elementi estrapolati dal loro contesto. La legge impone di riciclare i parabrezza rotti, un altro principio che non è estraneo alle nozioni buddhiste! Io li metto fuori circolazione, ma loro continuano a circolare.

Le colonne di led sospese nello spazio tra i parabrezza, «Starstarstar / Steer (transphoton)», fanno pensare a quelle di un tempio immaginario...
Il visitatore è accompagnato in un percorso tra gli spazi della galleria, dal piano terra al seminterrato fino alla cripta, per poi uscire avendo visto tutte le opere due volte. Questa elasticità dello spazio genera una dinamica temporale e spaziale molto particolare, come un boomerang.
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Nella cripta, «Sounding Felix (Paris 8 assemblage») è una vera e propria improvvisazione. Come ha composto quest’opera?
Mi sono ispirato agli insegnamenti di Gilles Deleuze e Félix Guattari. Sono un po’ troppo giovane per averli conosciuti di persona, ma ho scoperto L’Anti-Edipo intorno al 1977 grazie a un professore della Saint Martin’s School of Art di Londra, in una traduzione inglese pubblicata poco dopo l’uscita del libro in Francia. Il loro pensiero risultava molto radicale ed esplosivo letto con gli occhi di un giovane dell’epoca. Poi c’è stato Millepiani, una polifonia alla quale mi sento ancora molto legato. Grazie all’amicizia con Éric Alliez, filosofo, artista e autore molto originale, mi sono avvicinato al pensiero di Guattari. Ho avuto la fortuna di partecipare a un convegno su di lui all’Università di Parigi 8 Saint-Denis nell’ottobre 2022. All’origine di «Sounding Felix» c’è un’auto che avevo riempito con diversi materiali e portato a Parigi senza sapere che cosa ne avrei fatto. Conteneva una coperta di sopravvivenza, lampade, sedie di Philippe Stark che andavano di moda negli anni Novanta, un telefono cellulare obsoleto, un gong cinese, la registrazione di una lezione all’Università di Vincennes del 1975 in cui Guattari contraddiceva Deleuze, e improvvisazioni al pianoforte a cui lavoravo da anni. Alla fine ho deciso di creare un’installazione, un assemblaggio, semplice come un’ikebana!

Il Mostyn di Llandudno, in Galles, ospita una sua mostra (fino al 25 febbraio). È la prima volta che espone nel Paese in cui è nato. Lei ha spesso parlato di questa cultura, di questa lingua, del concetto di traduzione... In che cosa consiste guardare il mondo attraverso la cultura gallese?
È una domanda molto difficile a cui rispondere. Per me c’è un elemento di nostalgia legato all’esperienza di un mondo molto più tranquillo. Il gallese è la mia lingua d’origine, nella mia scuola era vietato l’inglese. La lingua che parlavo da bambino è un po’ diversa da quella che si sente adesso, ma ora molte più persone parlano gallese ed esiste persino un canale televisivo in lingua. Ogni bambino bilingue si rende conto che ci sono modi diversi di pensare al mondo. In un certo senso, con questa mostra sono tornato in un Paese dove ho parenti, ma al quale non sono più molto legato. Ci torno ogni estate per osservare alcune cose, ma non è nemmeno considerabile un ritorno a casa, lo faccio in maniera un po’ feticista. Il motivo per cui ho accettato di fare questa mostra non è tanto perché si tratta del Galles in quanto mia terra natia, ma perché il suo contesto è molto interessante. È un ramo celtico della cultura inglese, che ha una relazione con la lingua bretone, la lingua scozzese e la Cornovaglia. E il luogo è facile da raggiungere! Llandudno è una città vittoriana che apparteneva a una sola famiglia e che è cresciuta di colpo alla fine del XIX secolo fino a diventare una località balneare piuttosto tranquilla e un po’ pittoresca.

Devo dire che mi piace molto il carattere criptico di alcune delle sue opere. Ricordo un’opera nascosta in una scala della torre del Centre Point a Londra. È ancora lì?
Sì, credo di sì. L’ultima volta che ci sono stato, si poteva vedere dall’esterno, ma è un’opera discreta, non urla! Non so che cosa stia succedendo con la ristrutturazione della torre, ma è molto rassicurante sapere che quell’opera si trova lì, nel centro di Londra senza che nessuno ne sia a conoscenza!

Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 ha realizzato film sperimentali come «Degrees of Blindness», «Unclean» e «Hail the New Puritan»: come è passato da questi lavori molto fisici e colorati a luci che parlano in codice morse come fantasmi? Sono forse le ombre del suo lavoro cinematografico?
È vero che il mio lavoro ha subito questa modifica, almeno dal punto di vista formale. Ho deciso di cambiare i miei mezzi di produzione. Quando finivo di lavorare a un film ne avevo abbastanza perché era troppo complicato da produrre, così ho voluto cambiare i ritmi e la velocità dei miei processi. Inoltre, nei miei film non c’erano attori professionisti, erano tutti amici. Derek Jarman, di cui ero vicino di casa e a cui ho mostrato i miei film quando ho lasciato la scuola, ha parlato del mio lavoro all’Ica di Londra che in quel momento stava allestendo una cineteca, così ho potuto esporre lì all’età di 21 anni. Derek mi ha aiutato molto. In altre parole, mi ha dato lavoro. Abbiamo sviluppato un rapporto di sostegno reciproco: io gli ho presentato delle persone e lui me ne ha presentato altre. Era una comunità di gente che la pensava allo stesso modo, in un’atmosfera che probabilmente era molto simile a quella che si respirava sul set dei film di Kenneth Anger o della Factory di New York. Nel cinema il mio cuore è con Andy Warhol e con Kenneth Anger, uno scrittore e regista che ho conosciuto e che mi ha affascinato. Da un punto di vista formale questi due periodi del mio lavoro possono sembrare molto diversi, ma grattando la superficie si trova la stessa essenza!

«Sounding Felix (Paris 8 assemblage)» (2022) di Cerith Wyn Evans. Cortesia dell’artista e Marian Goodman Gallery. Foto Rebecca Fanuel

Una veduta della mostra «Cerith Wyn Evans. No realm of thought… » (2023), Parigi, Marian Goodman Gallery. Cortesia dell’artista e Marian Goodman Gallery. Foto Rebecca Fanuel

Anaël Pigeat, 24 febbraio 2023 | © Riproduzione riservata

Wyn Evans: «La mia idea di negazione è una rilettura dei testi buddhisti e di Stella attraverso Fontana» | Anaël Pigeat

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