Siamo inondati dalle immagini, gran parte delle quali, tra l’altro, non ha nulla a che vedere con intenti artistici e molto a che fare con le strategie della comunicazione. Non capire nulla di arte non è così grave; è esiziale, al contrario, non essere in grado di interpretare le immagini. Le subiamo e non riusciamo a dominare la loro potenza. Siamo più bravi con le parole e lo si vede soprattutto nel mondo dell’arte, dove a immagini esteticamente sempre più deboli (eppure, subite da chi non ha la cultura e le facoltà critiche per confrontarvisi ad armi pari, capaci di influenzare i mondi paralleli della pubblicità, dell’intrattenimento e della comunicazione) si accompagna, al contrario, un massiccio uso della parola, scritta o più spesso verbale.
Uno dei più compulsivi utilizzatori, catalogatori e diffusori di parole che si ricordi nel sistema dell’arte contemporanea, Hans Ulrich Obrist, è infatti da tempo stabilmente inserito nella classifica dei «Power 100» del settore annualmente pubblicata da «Art Review». Nel 2003 era 86mo; nel 2006 era iniziata la sua scalata (46mo). È primo nel 2009, si stabilizza nelle prime quattro posizioni per qualche anno e poi ritorna in testa nel 2016. Ma da allora è iniziata la discesa e oggi veleggia, quarantesimo, a metà classifica. Dal 2019 al 2021 ha perso gradualmente 28 posizioni. «Alcuni si chiedono se la pandemia abbia posto fine all’era dell’ubiquità di Obrist, ma non sembra frenare la sua influenza», recita la motivazione della pur sempre onorevolissima collocazione del curatore e direttore artistico delle Serpentine Galleries di Londra, carica assunta nel 2005.
A 54 anni «il più grande curatore sulla piazza», come lo definiva qualche anno fa il suo amico artista Philippe Parreno, è in declino oppure basterebbe una nomina alla direzione di documenta per riportarlo in alto? O ancora: se crepuscolo è, riguarda lui o tutta la sua categoria, confermando così l’esattezza della profezia del critico e docente canadese David Balzer, autore, nel 2015, del saggio Curationism. How Curating Took Over the Art World and Everything Else, pubblicato in Italia da Johan & Levi con il più accattivante titolo Curatori d’assalto?
Un tormentone degli allenatori di calcio è «non guardiamo la classifica»; lo dicono nelle interviste in due casi, sia che la loro squadra abbia buone chance di vincere il campionato sia che rischi la retrocessione. Però il richiamo della «Power 100» è irresistibile. Per la serie «non è vero ma ci credo», è un dato di fatto che se il numero di curatori presenti in classifica è stabile, poco meno di una ventina, è in crescita esponenziale quello degli artisti: dai 9 del 2003 si è passati ai 34 del 2021; nel 2018 erano 22.
Per quanto i curatori smentiscano regolarmente di avere un effettivo potere sugli artisti o, peggio, di volerli manipolare o travalicarne il ruolo, più volte gli artisti hanno manifestato la loro insofferenza nei confronti dei curatori. Anche il mitico Harald Szeemann, uno dei (molti) modelli di Obrist, subì la contestazione di artisti come Donald Judd e Sol LeWitt. Non andò meglio ad Achille Bonito Oliva e a Jean Clair, ai tempi in cui erano direttori della Biennale di Venezia, rispettivamente nel 1993 e nel 1995.
Obrist appartiene però a una generazione successiva, quella in cui i curatori si presentano come complici, colleghi, alleati degli artisti. «Perché sei un essere speciale», per citare il verso più celebre de «La cura» di Franco Battiato sembrano dire i curatori di oggi ai loro artisti. Lui stesso, nel racconto dei suoi primi 32 anni, Fare una mostra (Utet, 2020), ricorda che i suoi primi referenti furono gli stessi artisti: a soli 16 anni, folgorato da una mostra di Fischli & Weiss, li volle incontrare, poiché li considerava «maestri dell’interrogazione» (il giovanissimo Obrist non sapeva ancora che l’intervista sarebbe stata la sua specialità): «Sono nato nel loro studio. È lì che ho deciso di diventare curatore»; nel 1986, dunque a 18 anni, approfitta di una gita scolastica a Roma per andare a suonare il campanello ad Alighiero Boetti, che lo introduce agli studi di altri artisti.
Solo dopo va in cerca di potenti ali curatoriali sotto le quali crescere, quelle di Kaspar König e Suzanne Pagé. Il ragazzo che a Zurigo aveva visitato per 41 volte la mostra «Verso l’opera d’arte totale», curata da Harald Szeemann per la Kunsthaus, manifestò subito uno spiccato interesse per la parola e per l’incontro. La sua fama di globetrotter insonne nasce infatti dalla volontà di assecondare gli artisti in ciò che essi amano di più: parlare di sé stessi.
Abbiamo perso il conto delle interviste raccolte da HUO, ma si parlava di oltre 2.500 ore di registrazioni, in Italia iniziò a pubblicarle nel 2003 Charta. Era l’anno della Biennale di Venezia diretta da Francesco Bonami, che gli affidò la sezione «Utopia Station»: Obrist la cura, nello spirito collegiale di quella Biennale oceanica per numero di artisti inviati, insieme all’artista Rirkrit Tiravanija, esponente di spicco di quell’estetica relazionale che guiderà tanta parte dell’esperienza del curatore svizzero, e Molly Nesbit, che qualche anno fa l’autorevole «Artforum» ha definito «la più creativa storica dell’arte americana del suo tempo».
I tre, in un Arsenale arroventato da una torrida estate, congegnano un progetto interdisciplinare che è insieme mostra in progress, libro e seminario, cui intervengono 150 autori circa, incluse archistar come Rem Koolhaas e Arata Isozaki, star e basta come Yoko Ono e altri cultori dell’arte relazionale, tra i quali Liam Gillick e Carsten Höller. «Utopia è una stazione di passaggio, proclamavano i tre curatori. Come struttura concettuale è flessibile; la Stazione stessa sarà piena di oggetti, oggetti parziali, dipinti, immagini, schermi. Intorno a loro prendono posto una varietà di panche, tavoli e piccole strutture. Sarà possibile fare il bagno in Stazione e incipriarsi il naso. La Stazione in altre parole diventa un luogo dove fermarsi, contemplare, ascoltare e vedere, riposare e rinfrescarsi, parlare e scambiare. Perché sarà completato dalla presenza di persone e da un programma di eventi. Spettacoli, concerti, conferenze, reading, programmi cinematografici, feste, gli eventi si moltiplicheranno. Definiscono la Stazione tanto quanto i suoi oggetti solidi. Ma nel corso dell’estate e dell’autunno continuerà a essere aggiunto alla Stazione ogni genere di cose».
Ai tempi Obrist aveva già alle spalle l’esperienza di «curatore migrante» (sic!) al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris. Christian Boltanski gli aveva presentato la direttrice, Suzanne Pagé: «Se Kaspar König mi aveva insegnato a fare libri e a organizzare esposizioni su larga scala, da Suzanne Pagé ho imparato come si gestisce un museo. (...) Sotto la sua guida il Musée d’Art Moderne è stato un museo fatto dagli artisti per gli artisti». Sulle mostre, sulle biennali, che in quegli anni si moltiplicavano in tutto il mondo, e sul ruolo del curatore aveva le idee chiare: «Il pericolo delle grandi esposizioni collettive è che possono essere viste come il Gesamtkunstwerk del loro stesso ideatore. Negli anni Ottanta molte esposizioni tematiche hanno rischiato di essere viste così, con il curatore come figura predominante o come auteur che usa le opere d’arte per illustrare le proprie teorie. (...) Al contrario, il modo migliore di dar vita alle esposizioni è quello di parlare e di lavorare con gli artisti: dev’essere il loro input a pilotare il processo sin dall’inizio. Un altro sviluppo positivo è la cocuratela di mostre da parte di una molteplicità di figure».
Tutto ciò HUO pensava e scriveva a 32 anni, nel 2000, incarnando il nuovo ruolo del curatore post demiurgo. «Quale sia il suo effettivo contributo nell’universo dell’arte è difficile da capire, scrive Francesco Bonami nel suo sapido Il Bonami dell’arte. Potrei dire che è un connettore, uno che mette in contatto gente diversa e disparata solo per il piacere di farlo. Attraverso di lui ho conosciuto personaggi incredibili e anche alcuni terribili seccatori che sfruttano la sua fascinazione con il mondo intero come ponte e tunnel per arrivare a rompere le scatole al prossimo. HUO ha intervistato cani e porci, leoni e serpenti, gatti e topi. (...) La sua abilità è quella di riuscire a ipnotizzare chiunque, in particolare sindaci e assessori alla cultura. È un viaggiatore instancabile».
«Curatore freelance ufficiale del mondo intero», come è stato definito, l’uomo allampanato in completo blu elettrico è stato sino all’era pre Covid-19 l’allegoria di un sistema dell’arte ipertrofico e ultraglobalizzato, scandito da 200 biennali all’anno, tormentato dalla fair-fatigue imposta dalle nuove cattedrali effimere di un mercato in cui le gallerie esistono solo a patto di rinunciare alla loro storica caratteristica, cioè la stabilità geografica della sede.
Guarda tutto; che cosa «veda» realmente non è dato sapere. Raramente la parola «mercato» appare nel suo vocabolario. Non pensiamo che si tratti di una sorta di ascetismo calvinista, quanto di una posizione neutrale, di quell’equilibrio fra le parti che traspira anche dalle sue interviste. Ispirato dai dialoghi di David Sylvester con Francis Bacon e da Studs Terkel, lo scrittore americano ricordato soprattutto per le sue interviste a persone comuni, Obrist non contraddice mai i suoi interlocutori, non li coglie nei loro punti deboli, non cerca il dialogo nel senso pieno dell’espressione (il prefisso «dia» indicherebbe anche separazione, differenza), ma si limita a invitare l’intervistato di turno a diffondersi su di sé e il suo lavoro.
Obrist, in altre parole, è sempre dalla parte del suo interlocutore, come del resto lo era Sylvester. E non si sa mai bene sino a che punto il risultato delle sue interviste rappresenti una forma di informazione o non piuttosto un veicolo di consenso per un settore non più tanto di nicchia. Perché quando un curatore intervista un artista fila sempre tutto liscio, non ci sono mai domande critiche? I casi sono due: o il lavoro dell’artista di turno è perfetto e inoppugnabile, oppure il curatore-intervistatore rispolvera il ruolo del critico militante, cioè di colui che è fondamentalmente il sostenitore di una corrente o di un’avanguardia.
E ancora: come ha dichiarato a «Il Giornale dell’Arte», l’intervista «rappresenta la mia scuola personale, una fonte inesauribile d’informazioni da comunicare al mondo. Purtroppo, ormai il tempo per la lettura è sempre più ridotto e le occasioni d’imparare di poesia, architettura, musica e scienza si riducono. L’intervista a qualcuno che non conosco, specialmente se opera in un’altra disciplina, mi consente d’immergermi nel suo mondo e di leggere come ai tempi dell’Università».
Ha un bel dire che l’idea delle interviste gli venne da un biografo, nientemeno che Giorgio Vasari, dimenticando che quest’ultimo formulava giudizi e interpretazioni: la narrazione non era solo commento, ma critica. La parola e l’arte parlata sono in ogni caso le sue armi di persuasione di massa: l’opera d’arte non vive più in un «territorio magico» come aveva teorizzato Achille Bonito Oliva. Anzi potrebbe essere anche non guardata, tantomeno venerata. L’opera vive se se ne parla. Di più: la parola è la dittatrice dell’arte, la quale vive se è discussa.
Qualcuno dei molti che hanno vissuto politicamente a sinistra gli anni che intercorrono tra il 1968 e il 1978 e che si è riconosciuto nelle estenuanti e logorroiche conversazioni di collettivi, comuni o gruppi di discussione nei film di Nanni Moretti come «Io sono un autarchico» ed «Ecce Bombo», e che per un crudele gioco del destino si è in seguito occupato d’arte contemporanea, avrà pensato a un terrificante déjà vu parossisticamente estremizzato assistendo a uno dei progetti di cui Obrist va più fiero, una delle sue «maratone» di conversazioni organizzate da quand’è alle Serpentine Galleries.
Nel 2007, ad esempio, insieme all’artista Olafur Eliasson «il progetto ha esplorato l’idea della sperimentazione e ha messo in mostra un evento unico per la durata continuativa di 24 ore. Più di 100 importanti artisti, architetti, registi, studiosi e scienziati hanno parlato e hanno dimostrato le loro idee intorno al tempo, allo spazio e alla realtà attraverso i modelli, le vibrazioni e la percezione, esaminando l’affermazione di Eliasson, secondo il quale “Quello che abbiamo in comune è che noi siamo diversi”».
Tutto ciò è la normale conseguenza di quella trasversalità attraverso la quale l’arte gira intorno a sé stessa, a opere che hanno perduto il loro status di «oggetti» dotati di un appeal attraverso il quale la forma è portatrice di cultura visiva e che sono diventate «progetti», display per canalizzare un insieme di saperi e di discipline. È quanto stava a cuore a Okwui Enwezor, che curando documenta nel 2002, disse apertamente che l’arte contemporanea è un canale di comunicazione come gli altri, attraverso il quale, oggi, i curatori portano alle biennali filosofi, registi, architetti, scrittori, scienziati ecc. Il che è un modo per dimostrare che l’arte fa parte della vita reale, interagendo con essa, allargando il pubblico e muovendo più denaro nel momento in cui si apre alla predetta trasversalità.
Obrist, in tal senso, ha le carte in regola anche nella sua formazione: «Benché fin da ragazzo sapessi che mi sarei dedicato all’arte, volevo anche capire come funziona il mondo. Così scelsi di studiare economia e scienze ambientali, e a San Gallo seguii i corsi di Hans Christoph Binswanger, che si è interessato molto al contributo di Goethe all’economia. Essendo un generalista, sono sempre stato attirato da figure di generalisti: da Goethe, che fu poeta, pittore, filosofo e ministro dell’Economia del Ducato di Sassonia, a Diaghilev, il grande impresario russo che riunì artisti, compositori e scrittori ai suoi Ballets Russes».
Andiamo su Google per controllare chi è Binswanger. In cronologia, però, c’è ancora la pagina dei Power 100. Chi se ne frega delle classifiche. E poi, come dice Obrist, fare il curatore come lo fa lui non ha niente a che fare con il potere. Certo però che stando a quella classifica lì a cui nessuno crede, si potrebbe davvero pensare che i nuovi potenti siano i «thinkers», i filosofi, gli antropologi, i pensatori di vari e vasti argomenti (sono 13 nell’elenco), dunque è davvero il momento della trasversalità e persino del generalismo.
E rimane inequivocabile il dato riportato in apertura: la maggioranza ce l’hanno gli artisti. In classifica non c’è Gian Maria Tosatti, che almeno per noi italiani è l’artista dell’anno in virtù del fatto che non solo sarà il protagonista del Padiglione nazionale alla prossima Biennale di Venezia, ma è anche direttore artistico della Quadriennale di Roma. Tosatti è artista, curatore, giornalista e teorico. Nelle oltre 300 pagine fitte fitte di Esperienza e realtà, il suo ponderoso saggio edito recentemente da postmediabooks, tra le altre cose argomenta la necessità di «ridefinire l’arte». Che smette di essere oggetto o elemento di passiva contemplazione per diventare «esperienza». Perché, spiega, esiste una quinta dimensione che è appunto quella dell’«esperienza estetica».
Chi alla Biennale di Venezia del 2001 si avventurò nei cunicoli della grande installazione di Gregor Schneider nel Padiglione tedesco forse non lo sa, ma ha sperimentato la quinta dimensione. Ora, pare proprio che quella famosa quinta dimensione la sappiano creare o indicare o evocare soltanto gli artisti. Certo che individui capaci di aprire la porta sulla quinta dimensione sono immensamente più importanti dei curatori. E allora davvero il ruolo di «facilitatore di un nuovo tipo di mostra», come dice Obrist a proposito del suo mestiere, sarà il massimo cui il curatore possa aspirare.
«Nuovo tipo mostra» sta per evento espositivo legato a un’arte «non più necessariamente legata agli oggetti ma che è divenuta un “quasi-oggetto”, se non un “anti-oggetto”». Non sarà un caso se una delle mostre più amate da Obrist è quella curata da Jean-François Lyotard nel 1985 al Centre Pompidou con l’emblematico titolo «Les Immatériaux». E intanto Tosatti, a proposito della Quadriennale, riconduce a sé, artista, il ruolo di coordinare la ricerca, cioè la parte creativa del progetto, e ai curatori quello di dare sistemazione alla mostra che ne seguirà.
Ma che ne sarà di Obrist, al quale è difficile non riconoscere di aver conservato la genuinità di quando, a tre anni soltanto, restò incantato davanti alla monumentale biblioteca dell’Abbazia di San Gallo e che a 23 anni organizzò nella cucina di casa la sua prima mostra collettiva? Sono già passati diciassette anni da quando Giorgio Guglielmino, collezionista e autore di Ladies & Gentlemen dedicato alle 200 persone che contano nell’arte contemporanea, lo considerava «destinato a un ruolo di evidenza nei prossimi vent’anni». Ne mancano tre.
E poi? Se già oggi il curatore spesso altro non è che un project manager, il cui compito è difendere, sostenere e presentare l’operato di chi le cose le progetta, cioè gli artisti, i Tosatti insomma, che cosa gli resterà da fare in un futuro che forse è già presente, ora che, come scrive David Balzer, «l’arte sembra voler tornare alla creazione incentrata sull’oggetto», a cose che «trovano facile mercato e che per anni i galleristi hanno gestito e presentato con sapienza», quei galleristi che negli anni Ottanta erano i veri superpotenti nel mondo dell’arte? Ci sarà ancora bisogno di costruttori di mostre e di parole?
L’abbraccio con gli artisti da parte dei curatori di ultima generazione rischia, per questi ultimi, di essere mortale. Tipi come Theaster Gates, Anne Imhof o Hito Steyerl si gestiscono egregiamente da sé sul piano teorico. Non hanno bisogno di interlocutori critici, ancorché indulgenti se non supini, né di «dispositivi» per presentare il loro lavoro. Utilissimi, invece, i manager, i p.r. e naturalmente i galleristi, ad esempio Lia Rumma, che ha recentemente ospitato una mostra di Tosatti. Il quale, peraltro, crea non solo situazioni o esperienze, ma anche oggetti.
Forse Nicolas Bourriaud, teorico dell’estetica relazionale, deve avere sentito puzza di bruciato se ha ideato Radicants, la prima cooperativa di curatori indipendenti che si occuperà «della produzione di mostre, consulenza in tema di ingegneria culturale, edizione e vendita di opere» collaborando con galleristi, istituzioni pubbliche e private e collezionisti. Facendo gruppo, in sostanza, si è più forti nell’ormai urgente necessità di difendere la loro professione.
Il profeta Tony Soprano
Se si osservasse dall’alto il sistema dell’arte nell’era del curazionismo (come la definisce Balzer) forse al suo tramonto, si rivelerebbe una situazione paradossale. È come se teorici dell’arte, filosofi, artisti, antropologi, poeti, scrittori, pensatori e insomma tutto il circo che ormai fa obbligatoriamente parte dello staff di una biennale o di una documenta vivesse in una città virtuale in cui si parla di tante cose che riguardano tangenzialmente l’arte visiva. O meglio, se ne parla ma girando intorno a uno dei suoi elementi costitutivi, l’immagine, proiettandone non la sostanza, ma la sua ombra su vari ambiti del sapere.
L’impressione che dà tutto questo fiume di parole è che in fondo in fondo persino gli artisti dubitino della possibilità di una vita propria delle immagini se private del bozzolo vischioso della parola. E sembra che, in questo gran consesso di sapienti e di artisti, di critici didascalici, di intervistatori reggimicrofono, nel culto fanatico di un malinteso senso della multidisciplinarità, nessuno si preoccupi del fatto che le immagini di ogni tipo e qualità sono sempre più numerose e fameliche e premono contro le mura della città; i più distratti sembrano proprio quelli che di immagini dovrebbero occuparsi, se non avessero il vezzo di considerare demodé la questione.
Come presuntuosi stregoni non necessariamente apprendisti, si direbbe che abbiano evocato torme di demoni: si direbbe che qualcosa non abbia funzionato, se sulla scorta della massima diffusione popolare e mediatica dell’arte contemporanea sono spuntati così tanti (la maggioranza) imitatori, pataccari, artisti di strada ora nouveaux pompier, senza contare i koonsisti, i cattelaniani, murillini, i basquiatteschi, i banksysti, le imhoffette, i vezzolotti, le steyerliane, e tra poco, scommettiamo, famiglie intere di tosattieri.
Il ritorno all’icona dopo un interregno concettuale è il fenomeno più vistoso degli ultimi decenni, anche perché ha creato un modus e un’iconografia pronti a passare dalle biennali ai selfie e dunque ai social, sino all’affermazione del golem impazzito, la criptoarte, il prêt-à-porter dell’immagine capace di far saltare tutti i codici e i ruoli. Aggrediti e sopraffatti da immagini d’ogni risma, finiremo per esserne colonizzati, così come gli abitanti della città immaginata da Furio Jesi nel suo romanzo L’ultima notte vengono inesorabilmente schiavizzati da schiere di vampiri venuti a reclamare i loro diritti. E a decretare la resa, in quelle pagine, è proprio la vacuità dei poeti e degli artisti che hanno abiurato la loro responsabilità primaria: offrire visione e conoscenza attraverso immagini capaci di esserne portatrici.
Allora il timore è che su tutti noi, incluso il maratoneta della parola Obrist, incomba come una tremenda profezia l’irritata constatazione di Tony Soprano: «Lo sapevo che tutto questo parlare d’arte ci portava dei guai».
Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore
Mercato e passione: l’anima di una fiera ricca di scoperte, non solo per collezionisti, ma per l’intero sistema dell’arte. Ne parla il direttore Luigi Fassi
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