Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliIn concomitanza con le elezioni al Parlamento Europeo ci è venuto spontaneo immaginare un mondo se non migliore quantomeno diverso, dove almeno uno di quei seggi venisse assegnato a un artista che oggi incarni non tanto l’europeismo, ma la cultura e la tormentata, contraddittoria storia del nostro Vecchio Continente. Se negli Stati Uniti (su cui grava la minaccia di una rielezione di Trump) un perfetto candidato al Congresso sarebbe Jeff Koons, da questa parte dell’Atlantico a quel ruolo potrebbero probabilmente concorrere almeno due nomi: Marina Abramović e Anselm Kiefer, avversari in immaginarie primarie. Entrambi hanno evocato i demoni della guerra, del totalitarismo e della persecuzione etnica (la prima con una performance sul conflitto balcanico negli anni Novanta, il secondo con le sue discese agli inferi del passato nazista della Germania). Entrambi hanno poi preso strade diverse: l’artista serba dedicandosi all’arte relazionale e performativa come esperienza catartica e rigeneratrice; il suo collega tedesco cercando nei suoi libri i miti e le simbologie di un’apocalisse permanente, in cui mescola kabbalah e spettacolarità scenografica. Prima «parlava» con Hitler; oggi con gli angeli.
Certo, l’audience ottenuta dal documentario di Wim Wenders ne avrebbe molto rafforzato la candidatura. E se molti, prima della «kiefermania», indicavano in Michelangelo Pistoletto un valido erede del gran sacerdote Joseph Beuys e della sua idea di arte che vive in tutti gli uomini e li rende partecipi di una rivoluzione dello spirito, oggi la popolarità e la grevità della materia che caratterizzano le opere di Kiefer «pesano» ben più del Terzo Paradiso pistolettiano. È normale: per i lettori e gli illustratori della Divina Commedia, l’Inferno, così denso di immagini, personaggi, orrori e terrori, è sempre stato più attraente del Paradiso.
Nel 1829, un dramma di Christian Dietrich Grabbe (toh, un altro tedesco...) portò sul palcoscenico Faust e Don Giovanni identificandoli come le due anime che, insieme, compongono l’uomo europeo. Da una parte la sete di conoscenza, dall’altra l’abbandono al piacere; di qua la scienza e lo studio come elevazione spirituale, di là l’eros e la sensualità come sublimazione della vita terrena. Ben più di Marina Abramović, è Kiefer che sembra volersi presentare come il Faust dei giorni nostri, con tutta la malinconia che il personaggio di Goethe si porta appresso. Se un sentimento tragico accomuna Abramović e Kiefer e se soprattutto quest’ultimo aspira a un ruolo faustiano, sembra però essersi smarrita, negli artisti contemporanei, l’altra anima, quella del Don Giovanni.
Non pare opportuno, oggi, parlare di piacere come modus vivendi in un’Europa in guerra e su cui aleggia il ritorno della parte peggiore della politica, la xenofobia e il sovranismo. E allora, per trovare un candidato «completo», converrà con qualsiasi mezzo rispolverare il vecchio, vecchissimo Picasso. Dipinse di guerra (da Guernica alla Corea) e di sesso, di tragedia e commedia; praticò anche l’arte come scienza e conoscenza della forma (nella fase cubista) e, come Faust, vendette l’anima al demone della citazione pur di continuare a perpetuare, ben oltre i limiti concessi dall’anagrafe e dallo Zeitgeist, la sua vita d’artista e la storia della pittura. E fu Don Giovanni non solo nella sua vorace vita sentimentale, ma anche nell’esercizio dell’arte come puro piacere nell’era in cui l’iconoclastia concettualista e il puritanesimo minimalista bandivano l’ebbrezza estetica. Ma davvero siamo obbligati a risvegliare Picasso dal suo sonno e portarlo nell’umida Bruxelles, lui che amava il caldo del Midi? Siano allora i lettori di «Il Giornale dell’Arte», a votare liberamente il loro o i loro candidati a rappresentare l’Europa (e quindi a rappresentarci).
Votate «Un artista per l'Europa»: https://forms.gle/1jmiDgqUpqk5EfX37
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