Giuseppe M. Della Fina
Leggi i suoi articoliA Vulci, nella Maremma laziale, ho incontrato Carlo Casi, direttore scientifico della Fondazione Vulci che gestisce il Parco archeologico e naturalistico. Vi lavora dal 1995 e soprattutto al suo impegno si deve il fatto che oggi l’area dell’antica città etrusca si sia trasformata in un cantiere di scavo internazionale. Qui sono presenti da anni, dividendosi i settori d’intervento e sempre con la supervisione attenta degli organi territoriali del Ministero della Cultura, svariate università e istituti di ricerca italiani e stranieri: la svedese Università di Göteborg, ad esempio, ha appena concluso la campagna di scavo 2024.
L’apertura internazionale di Vulci non deve sorprendere: l’avvio di ricerche sistematiche nell’area si deve a Lucien Bonaparte, fratello ribelle di Napoleone. I risultati degli scavi furono sorprendenti per lo stesso principe-archeologo e fecero entrare gli Etruschi nella cultura europea attraverso un testimonial d’eccezione, lo scrittore Stendhal che arrivò a scrivere: «Mi sento indignato contro i Romani, che vennero a turbare, senz’altro titolo che il coraggio feroce, quelle repubbliche d’Etruria che erano loro tanto superiori per le belle arti, per le ricchezze e per l’arte di essere felici» (Rome, Naples et Florence, 1826).
Negli ultimi anni le scoperte a Vulci sono state numerose. Partiamo dalle indagini appena concluse: gli archeologi svedesi hanno riportato alla luce i resti di un probabile complesso cultuale, sinora sconosciuto e posizionato all’interno dell’area urbana, che si affacciava sulla sottostante necropoli di Ponte Rotto, pure attualmente area di scavo, dove si trovano il Tumulo della Cuccumella e la celebre Tomba dipinta detta François (dal cognome dello scopritore) con scene della storia etrusca e romana. Al momento si contano tre strutture o piattaforme in pietra, i resti di un edificio a pianta rettangolare articolato su due ambienti e quel che rimane di un edificio ulteriore non ancora interpretato.
In un’altra zona dell’area urbana archeologi di due atenei tedeschi, la Albert-Ludwigs-Universität Freiburg e la Johannes Gutenberg-Universität Mainz, stanno riportando alla luce un tempio dalle dimensioni simili a quelle del cosiddetto Tempio Grande, uno degli edifici sacri più noti della città, che si trova nei pressi. Le prime indagini suggeriscono una fondazione coeva a quella del tempio già noto e, in questo caso, dovremmo pensare all’ideazione e realizzazione di un progetto edilizio unitario in grado di mutare notevolmente il paesaggio urbano precedente a segnalare, enfatizzandola, la crescita politica, economica e culturale della città nell’ambito dell’Etruria.
Parallelamente, ulteriori interventi (in corso) si sono indirizzati verso le necropoli grazie alla partecipazione di istituti universitari italiani (Università degli Studi «Federico II» di Napoli e Università «Gabriele D’Annunzio» di Chieti-Pescara) direttamente e, in maniera congiunta, con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Viterbo e l’Etruria Meridionale, attiva sul posto con l’archeologa Simona Carosi, e con la Fondazione Vulci.
Significativo e «fresco di scavo» il ritrovamento nella necropoli dell’Osteria della Tomba 58 articolata su due camere, in una delle quali il corredo funerario comprendeva, tra l’altro, un piccolo bacile in bronzo che accoglieva i resti di un cofanetto ligneo. Al suo interno è stato rinvenuto eccezionalmente ciò che restava di un grappolo di uva come acini e vinaccioli. La tomba apparteneva a un uomo e risulta databile tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Degne di nota particolare risultano anche la Tomba «dello scarabeo dorato» e la Tomba 29, quest’ultima pertinente a un guerriero di alto rango, entrambe scoperte nella necropoli in località Poggio Mengarelli.
Una considerazione finale che la realtà di Vulci suggerisce: ricerca scientifica e valorizzazione possono, anzi dovrebbero, procedere insieme. Qui ci si sta riuscendo.
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