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«Ascanio Sobrero» (1914) di Giorgio Ceragioli e Cesare Biscarra

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«Ascanio Sobrero» (1914) di Giorgio Ceragioli e Cesare Biscarra

Viaggiare con gli esperti | Torino nell’anima dei monumenti

Dalla città «sabauda» a quella dei santi sociali, laica, positivista e della scienza: sono oltre cinquanta i gruppi scultorei capaci di interpretare l’anima torinese, avviando percorsi sempre vari e a tratti inconsueti

Giovanni C.F. Villa

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Per comprendere Torino, la sua e nostra storia, vi sono due possibilità. Visitare Palazzo Madama, per Guido Gozzano la «casa dei secoli», vertiginosa proiezione di duemila anni in un edificio unico al mondo (porta romana e castello medioevale, capolavoro del Barocco europeo e osservatorio astronomico per divenire infine il Senato del Regno che decreta l’Italia unita e Roma capitale) oppure seguire la via monumentale.

Chi arrivi in città in treno e scenda alla stazione di Porta Nuova trova ad accoglierlo, quale porta d’accesso all’asse di via Roma verso le piazze San Carlo e Castello, il Giardino Sambuy. Qui, tra specchi d’acqua, piante rare e alberi monumentali gli si fa incontro una «Seminatrice di buone parole», sparse con ampio gesto, cui fa da sfondo una vivace folla di bambini intenta alla lettura, al gioco e al lavoro: è il monumento a Edmondo De Amicis di Edoardo Rubino, inaugurato nel 1923 a esaltazione delle «doti di educatore e autore immortale» dell’autore del libro Cuore. Uno degli oltre cinquanta gruppi scultorei capaci di interpretare l’anima torinese, avviando percorsi sempre vari e a tratti inconsueti.

Poiché si può seguire la Torino sabauda, fatta di condottieri e soldati, ma pure la Torino dei santi sociali, celebrati nella loro pietosa quotidianità (il bronzeo san Giuseppe Cafasso che porge una croce a un condannato, dal 1961 laddove erano storicamente eseguite le impiccagioni, il Rondò della Forca; oppure san Giuseppe Benedetto Cottolengo, stretto tra un anziano inginocchiato e una bambina in preghiera) o glorificati in una beatitudine monumentale che certo non avrebbero apprezzato, si veda il Don Bosco con i suoi salesiani. E poi c’è la Torino laica, positivista e della scienza, che celebra uomini e avvenimenti ma non dimentica Francesco Cirio, a Porta Palazzo padre nobile dell’industria delle conserve alimentari. Ed è questa la Torino che amava accogliere i suoi visitatori.

Se fossimo giunti intorno al 1914 in treno dalla linea di Milano saremmo probabilmente scesi a Porta Susa. E per primo avremmo incontrato Ascanio Sobrero svettante su di un’aggregazione di massi che richiamano le Alpi: macigni che vengono aperti, spezzati da un robusto nudo in bronzo, una rilettura dei «prigioni» michelangioleschi metafora della scoperta del medico e chimico che intuì la forza dinamica che frantuma la pietra, la nitroglicerina. Un monumento che afferma una priorità italiana e la memoria di uno scienziato ora esiliato al Parco del Valentino, divenuto luogo di ritrovo di tanta statuaria che, silenziosamente e in un sostanziale disinteresse da parte della comunità, vi è stata relegata negli ultimi cinquant’anni.

Togliendo preziose chiavi di lettura a un percorso di memoria e di crescita di un’identità locale, ma pure nazionale. Come accaduto per Massimo d’Azeglio, originariamente ritto dirimpetto alla facciata di Porta Nuova. Alfonso Balzico lo raffigura con una leggera ironia in volto, mentre la sua poliedrica e multiforme personalità è accuratamente annotata nelle allegorie della pittura, della letteratura, della politica e della guerra. Un tempo introduceva alla città che si voleva raccontare quale capitale della cultura, della diplomazia e dell’arte militare, ora avvia le passeggiate domenicali.

La capitale dello Stato sabaudo, e per pochi anni prima capitale del Regno d’Italia, ha identificato nel Risorgimento la propria identità monumentale. Un impegno patriottico e romantico concepito da Carlo Alberto, il primo re Savoia Carignano, capace di investire con lungimiranza in imprese pubbliche tutte finalizzate alla rinascita delle arti e della cultura: la Pinacoteca e l’Accademia di Belle Arti, la Biblioteca Reale e l’Armeria sono alcune delle sue più importanti realizzazioni istituzionali.

Ad esse affianca «il» progetto di statuaria monumentale per eccellenza: un capolavoro dell’allora trentatreenne Carlo Marochetti, un bronzo fuso a Parigi ed esposto con successo nel cortile del Louvre, e poi portato a Torino ed eretto nel 1838 al centro della sua piazza più significativa, Piazza San Carlo. È l’«Emanuele Filiberto di Savoia» che ancora ci affascina per il gesto imperioso e regale del rinfoderare la spada al termine della decisiva battaglia di San Quintino (1557), sul precario equilibrio del destriero, tanto focoso quanto improbabile: con tratti del normanno, dell’arabo e dell’inglese, in un molto personale evoluzionismo.

Rispecchia in tutto il gusto subalpino, diremmo la stessa mentalità: una nobile e composta naturalezza, che agisce senza strafare, né soffermarsi troppo sul dovere compiuto, e rapido diviene l’amato «caval ’d brons». Marochetti sarà poi amatissimo in Inghilterra (suo il celeberrimo «Riccardo Cuor di Leone» a Westminster) con opere che giungeranno fino in India e saranno così note che Alexandre Dumas lo ricorda ne Il conte di Montecristo e ancora Joseph Conrad si riferisce a lui, in Nostromo.

A Torino, della successiva e ampia celebrazione delle gesta dei Savoia vale la pena recarsi in Piazza Solferino ad ammirare il bellissimo Ferdinando di Savoia, una delle statue equestri più dinamiche di tutta la statuaria moderna: qui Balzicocoglie il Duca di Genova nel corso dello scontro alla Bicocca mentre il suo cavallo, ferito al petto, stramazza al suolo. Ferdinando per non sbilanciarsi si staffa, appoggia il piede destro a terra puntando lo stivale, tiene le briglie con la sinistra e continua, brandendo la spada, a incitare i suoi uomini all’attacco.

Una scena complessissima dal punto di vista scultoreo cui Balzico lavora per anni prima di riuscire a fonderla a Firenze. Da dove la scultura è trasferita a Torino su locomotive stradali a vapore del Genio militare: il convoglio pesa più di 160 tonnellate e impiega diverse settimane di viaggio, con tutte le fermate per adeguamento di ponti e abbattimento di alberi. Ovvio che il 10 giugno 1877, all’inaugurazione, fosse presente tutta la città. Anche per la scelta della collocazione, quella piazza Solferino che diviene polo nodale di allacciamento e saldatura tra la città barocca e il tessuto di espansione tardo-ottocentesca realizzato sui terreni ricavati dallo smantellamento delle opere esterne della smilitarizzata Cittadella.

Un’area che si apre e adotta lo stile floreale subito accolto nel magnifico Galileo Ferraris del 1903, capolavoro di Luigi Contratti. Un delizioso episodio stilistico che susciterà polemiche per l’ardito modellato. Avvertendo, nell’epigrafe posteriore, che «La scienza ha/ ideali più alti di/ quello dell’utile/ materiale diretto», Ferraris se ne sta bronzeo e del tutto sereno, le mani dietro la schiena a osservare i traffici della città elettrica, senz’essere minimamente turbato dall’affascinante fanciulla in marmo bianco di Carrara che si leva ai suoi piedi, leziosa nei movimenti e assolutamente sbarazzina nella veloce acconciatura dello chignon a personificare una Scienza Elettrotecnica quanto mai aggraziata e snella.

I passanti torinesi protestarono a lungo, apponendo e depositando petizioni affinché il prefetto facesse rimuovere l’opera invereconda dalla centralissima Piazza Castello. Da cui fu infine, nel 1928, trasferita in un’aiuola nel quartiere già borghese della Crocetta, fra ville ed edifici liberty, lasciando il posto al «Cavaliere d’Italia» di Pietro Canonica, il primo monumento al soldato partecipe di una collettività, anonimo nella schiera dei compagni, animale e uomo fusi in un intento solidale.

Altre saranno allora le piazze atte a celebrare la storia della scienza e il sacrificio dei molti per il progresso. Dal monumento al Frejus in Piazza Statuto (sottoscritto dalle Associazioni Operaie che vollero commemorare la propria fatica e i propri caduti) a quelli a Luigi Lagrange, Pietro Paleocapa o Quintino Sella, interpreti di una monumentalità fattasi quotidianità pensosa e attiva, in studiosi concentrantissimi o scienziati colti «sul campo». Opere esito di quella grande stagione verista italiana il cui protagonista è Vincenzo Vela. Che Torino omaggia con un monumento commovente: Annibale Galateri lo coglie dar forma al «Napoleone morente», con Vela ripreso mentre si ferma a valutare l’insieme e decidere gli ultimi colpi di scalpello che daranno vita propria alla statua.

Inaugurato nel 1911, è ora collocato nell’area prospicente le Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato, dove a fargli da corona sono una vecchia locomotiva e il locomotore di un Frecciarossa. Un segno dei tempi. Eppure, i tanti itinerari monumentali che si possono compiere a Torino appaiono ancora un viaggio nella memoria, nella consapevolezza di un patrimonio eccezionale non solo di bellezza e d’importanza storico artistica ma anche un patrimonio, per chi voglia osservarlo, portatore di quei precetti già messi in luce da Foscolo nei suoi Sepolcri: memoria, ammonimento e insegnamento. Poiché è la memoria del passato la base su cui costruire il presente e presagire un futuro altro.

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«Ascanio Sobrero» (1914) di Giorgio Ceragioli e Cesare Biscarra

«Galileo Ferraris» (1903) di Luigi Contratti

«Ferdinando di Savoia» (1877) di Alfonso Balzico

«Emanuele Filiberto» (1835) di Carlo Marochetti

Monumento a Vincenzo Vela

Monumento al Frejus in Piazza Statuto

Giovanni C.F. Villa, 30 marzo 2022 | © Riproduzione riservata

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