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Giordano Bruno Guerri. Foto © Pietro Oliosi

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Giordano Bruno Guerri. Foto © Pietro Oliosi

Una vittima del fascismo? La cultura di destra

Una vittima del fascismo? La cultura di destra

Nicolas Ballario

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«Gli intellettuali si sforzano di stabilire certezze, mentre il loro mestiere è seminare dubbi». Così Giordano Bruno Guerri definisce la categoria cui appartiene. Il tratto principale della sua personalità va individuato nel coraggio, inteso come sfrontatezza di chi ha qualcosa da dire.

Nato nel 1950 a Iesa, piccolo borgo senese, da genitori contadini, poi commercianti e infine operai, Giordano Bruno Guerri è uomo dalle mille vite e dalle mille sfaccettature. Non sappiamo il perché di quel nome così importante (e così calzante per questa rubrica) e lui sembra giocare quando concede spiegazioni: «Mio nonno anarchico. Oppure semplicemente perché una parte della famiglia mi voleva chiamare Giordano e l’altra Bruno».

I suoi natali professionali sono alla Garzanti, come correttore di bozze, appena terminato il liceo. Nel 1974 si laurea con una tesi sul più volte ministro e governatore fascista Giuseppe Bottai. Dopodiché, negli anni, diventa direttore dell’arcinota rivista «Storia illustrata», della Arnoldo Mondadori Editore, del mensile «Chorus» e del quotidiano «L’Indipendente».

E ancora conduce programmi in Rai e ricopre la carica di assessore al Dissolvimento dell’Ovvio di un Comune calabrese (Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro, Ndr). Praticamente tutti i suoi incarichi, così come iniziati, si dissolvono. I ruoli statici sembrano non essere molto compatibili con un uomo così libero da dare l’impressione, a volte, di volersi liberare persino delle proprie certezze.

Ma è soprattutto come storico che Giordano Bruno Guerri lascia il segno nel panorama nazionale e non solo, rimettendo in discussione la conoscenza storica del fascismo, prendendosela con la canonizzazione di santa Maria Goretti, sviscerando i rapporti tra gli italiani e la Chiesa, raccontando le vite di brigatisti rossi o di briganti neri.

Soprattutto, offrendo una visione nitida di Gabriele D’Annunzio. Ed è con l’audacia di un Savonarola che da tempo è presidente del Vittoriale degli Italiani, il complesso che il poeta pescarese costruì e sviluppò fino alla sua morte, un museo con giardini da 200mila visitatori all’anno, forse più conosciuto con il nome «La casa di D’Annunzio».

Quando ci incontriamo gli faccio subito notare che il piglio da condottiero non gli manca e che ancora non capisco perché, quando avevo 13 o 14 anni e lo vedevo in qualche programma, non cambiavo canale, sebbene la figura dello storico non fosse esattamente «attraente» per un adolescente. 

«Perché non aveva letto i miei libri».

Prego?
Se lei avesse spento la tv e aperto un mio libro, non le sarei piaciuto a quell’età. La verità è che io sono uno storico, ma sono anche altre cose, quindi mi seguiva perché non mi vedeva nelle funzioni di storico.

Insomma, lei non tende all’effetto noia perché fa anche altro?
Sa, il lavoro di storico a me piace, ma è un lavoro di immensa solitudine, perché hai a che fare solo con i morti. Poi devo fare altre cose che mi mettano a contatto con il mondo altrimenti diventerei un vecchio bavoso.

Lei di eretici e profeti se ne intende: ha scritto un libro che si intitola così, sul prete modernista Ernesto Buonaiuti, scomunicato dalla Chiesa, ma sempre fedele.
Fedele all’idea del Cristo, che è più importante della fedeltà alla Chiesa, della quale ha continuato a negare aspetti importantissimi della dottrina

Perché lo scrisse? Per sfida? Per onorarlo?
Fu un libro faticoso, perché non c’era quasi niente, bisognava studiare decine di testi, di materie a me strane e storie a me ignote. Lo feci nel momento in cui godevo della massima popolarità, dopo le trasmissioni tv, ben sapendo che sarebbe stato un insuccesso di vendite. Mi detti (sapendolo) la zappa sui piedi, danneggiandomi dal punto di vista professionale, economico e pubblico. Ma non l’ho scritto per senso etico, per donchisciottismo o per nobili motivi: l’ho scritto perché volevo scriverlo.

Quindi, almeno nelle intenzioni, un po’ si rispecchia in lui?
Mi posso sentire vicino a Buonaiuti, che però aveva motivazioni più solide, perché la mia è più una cosa caratteriale. La sua è meno di capricci personali, più di forza dei valori etici.

Lei è stato tra i primi a dire che il fascismo meritava un’analisi più approfondita, perché in esso andava letto anche lo spirito del movimento modernizzatore.
Così come Renzo De Felice (uno dei più controversi studiosi di fascismo, Ndr) ha affermato che gli italiani erano fascisti, io contemporaneamente affermavo che non solo era esistita una cultura fascista, ma che c’era anche una «buona» cultura fascista. 
Operazione molto importante che io ho fatto senza sottintesi politici, ma semplicemente perché studiando mi è apparsa questa cosa e come un bambino ho gridato: «Il re è nudo». Fino alla fine degli anni Settanta, in realtà non si è studiato il fascismo, si è iniziato a farlo dopo.

«Buona» cultura del fascismo? Che cosa intende?
Mentre glielo dicevo mi pentivo dell’espressione perché è equivoca. Buono è contrapposto a cattivo, crea confusione. È più giusto parlare di cultura di qualità. L’esempio più lampante è l’architettura, e tutto quello che lei sta scrivendo su «Il Giornale dell’Arte».

Lei al Maurizio Costanzo Show nel 1996 chiese a Carmelo Bene se fosse fascista e si prese una pernacchia come risposta.
È stato un episodio che io ricordo con dispiacere, perché tutti conoscono quei tre minuti di YouTube della mia discussione con Bene, conclusa con una pernacchia. Io andai da Costanzo per ammirazione di Carmelo Bene. Arrivato, ho visto che lui diceva ai presenti, quindi anche a me, «Siete tutti degli zombie». Non avevo nessuna voglia di farmi dare dello zombie, allora mentre tutti tacevano ho cercato di metterlo in difficoltà. Credo anche, a tratti, riuscendoci. Infatti dopo abbiamo cominciato a frequentarci per reciproca stima, perché ha capito che non ero uno zombie. Gliel’ho dovuto dimostrare, anche con quel «fascista» che era una mossa scorretta alla quale infatti lui ha reagito in modo sgangherato. Ottimo dal punto di vista scenico, ma certamente scomposto.

Gabriele D’Annunzio: qual è il primo ricordo legato a lui?
L’ho incrociato come tutti alle elementari, quando mi hanno imposto «La pioggia nel pineto». Poi me lo sono dimenticato, perché a scuola non te lo fanno studiare, fino alla mia tesi di laurea, quando appunto ho cominciato a studiare il fascismo e Bottai. Mentre facevo ricerche, andai a studiare l’archivio di D’Annunzio al Vittoriale. Era l’inizio degli anni Settanta, il Vittoriale non era ancora aperto al pubblico, e vidi la casa com’era davvero quando ci viveva D’Annunzio. In quel giorno decisi che avrei scritto un libro su di lui. Prima che lo scrivessi davvero sono passati 35 anni, però non ho mai smesso di occuparmene.

D’Annunzio che cosa ha lasciato di positivo e che cosa di negativo?
Oltre la sua poesia e la sua letteratura, ha lasciato un cambiamento: ha modernizzato la società italiana a colpi di frusta, a colpi di scandali, a colpi di esempi. Di negativo credo abbia lasciato un sovraccarico di estetismo.

Non è un aspetto positivo anche questo?
È  positivo in un esteta, negativo in una società che non sa gestire l’estetismo e ne fa semplicemente un’esibizione.

Quel che è certo, visitando il Vittoriale, è che aveva bisogno di spazio...
Stava costituendo un principato, una reggia. Quando lui arrivò, il Vittoriale era molto più piccolo, poi ha cominciato a comprare i terreni circostanti. L’ultimo acquisto era addirittura del 1936, poco prima della sua morte. Se fosse vissuto altri dieci anni, il Vittoriale sarebbe ancora più grande. Ne sono sicuro.

Ora questo complesso è un esempio di cultura virtuosa, produttiva, efficiente. Quante persone lo visitano ogni anno?
Nel 2015, l’anno migliore di sempre, 212mila persone. E nei primi tre mesi del 2016 siamo a +8% rispetto all’anno scorso. E se guardiamo il dato delle scolaresche, siamo a +12%.

Se gli studenti si avvicinano, vuol dire che le cose stanno cambiando?
Vuol dire che l’operazione per cambiare la percezione pubblica di D’Annunzio sta funzionando. Non più D’Annunzio protofascista, decadente, quello delle costole asportate, ma un D’Annunzio modernizzatore, libertario. Il mio D’Annunzio sta iniziando a prendere piede.

Lei si è sempre dichiarato di una destra libertaria, ma in Italia non è mai esistita.
In Italia abbiamo avuto la destra peggiore d’Europa.

Perché la cultura liberale, quella di D’Annunzio, non ha preso piede?
La cultura liberale è stata uccisa dal fascismo e questa è la sua più grande responsabilità, oltre quella di avere privato gli italiani dei diritti e delle libertà individuali e collettive per vent’anni. Dopodiché non si è più ripresa.

Lei ci ha provato con «L’Indipendente», quotidiano del quale è stato direttore. Le manca la direzione di un giornale?
È uno dei lavori più faticosi ed entusiasmanti che ci siano. Mi manca moltissimo, come mi manca la direzione della casa editrice, come mi manca non far niente e guardare il culo delle ragazze sulle spiagge di Copacabana.

Si sa che in Italia guidare una macchina della cultura non è impresa da poco.
È faticosissimo, perché si combatte sul tema della cultura e della bellezza, che a parole tutti trovano eccelso, ma di cui poi nessuno vede davvero l’importanza e la redditività concreta. Per cui si tratta di farli passare dal dire al fare, in un mare fatto di problemi concreti e costanti.

Che cosa le fa paura?
L’età dei miei figli, che sono molto piccoli. Ho paura di non riuscire a seguirli quanto vorrei per motivi biologici.

In quale Italia cresceranno?
Vivranno in Italia? Le giro la domanda.

È pessimista?
Niente affatto, sono ottimista. Se non lo fossi, non avrei fatto un figlio a sessant’anni e non starei affrontando dei signori che dubitano dell’opportunità di fare una mostra sulla Repubblica sociale a Salò.
 

Giordano Bruno Guerri. Foto © Pietro Oliosi

Nicolas Ballario, 04 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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