Hannah McGivern
Leggi i suoi articoliUn agiato sobborgo del Maryland è ora sede di uno dei musei privati più grandi del mondo. L’ampliamento tanto atteso del Glenstone Museum, lanciato nel 2006 dai collezionisti americani Mitchell ed Emiliy Rales e costato 200 milioni di dollari, si è inaugurato il 4 ottobre nella proprietà di 93 ettari della coppia, a circa 24 km da Washington. I Pavilions, un complesso di 19mila metri quadrati progettato da Thomas Phifer and Partners, e la precedente Gallery (2.700 metri quadrati) di Charles Gwathmey offrono uno spazio espositivo più vasto di quello del Whitney Museum di New York. Nel boom globale di clamorosi musei «single donor», Glenston spicca anche per le ambizioni dei suoi fondatori. I Rales hanno dichiarato l’intenzione di creare un «museo della comunità» che vivrà «per centinaia d’anni», una Frick Collection per l’arte del XX e XXI secolo. In cerca di ispirazione e suggerimenti per il nuovo spazio, la coppia ha visitato una cinquantina di istituzioni d’arte in tutto il mondo, tra cui il Louisiana di Humleback, vicino a Copenaghen e l’Inhotim in Brasile. Dall’illuminazione naturale ai depositi, «abbiamo visto caratteristiche diverse in ogni museo, che ci hanno influenzato molto», spiega Mitch Rales, cofondatore miliardario della società tecnologica Danaher.
Evitare le tendenze
I Rales hanno anche adottato un approccio meticoloso alla collezione di arte del dopoguerra e contemporanea, acquistando molte opere di artisti come Louise Bourgeois, Roni Horn e Richard Serra. Hanno detto di aver evitato le aste e le fiere e di aver comprato esclusivamente opere di artisti che hanno esposto per almeno 15 anni. «La storia ha bisogno di 30, 40, 50 anni per riordinare le cose, afferma Mitch. La gente se lo dimentica perché il mercato è sovreccitato», aggiunge Emily, storica dell’arte ora direttrice di Glenstone. L’ampliamento consente di esporre un numero maggiore delle circa 1.300 opere della collezione «senza un eccessivo sovraffollamento» di arte o di visitatori, sottolinea.
L’esposizione inaugurale nei Pavilions presenta solo 83 opere in 11 sale. Ma tra i nove spazi dedicati a singoli artisti, due ospitano installazioni talmente imponenti da essere permanenti: «Untitled» (1992) di Robert Gober, una stanza con lavandini che ricorda la cella di un carcere, originariamente presentata al Dia:Chelsea di New York, e «Collapse» (1967-2016) di Michael Heizer, scultura in acciaio scavata nel pavimento di una galleria a cielo aperto.
«Ammetto che abbiamo il tempo e le risorse per riuscire a trasmettere la visione di un artista molto più di altre istituzioni», dice Emily. A differenza della maggior parte dei musei nel costoso campo dell’arte contemporanea, Glenstone non ha le limitazioni di un budget per le acquisizioni o di un Cda. Secondo l’ultima dichiarazione dei redditi, la fondazione non profit, di cui Mitch ed Emily sono rispettivamente presidente del Cda e presidente, possedeva alla fine del 2016 beni in arte per più di 1,1 miliardi di dollari.
Accessibilità sotto esame
In passato l’accessibilità a questi beni è stata oggetto di indagine. Secondo il «New York Times», tra il 2006 e il 2013 Glenstone ha ricevuto meno di 10mila visitatori. Nel 2015-16 il senatore Orrin Hatch, presidente del Comitato finanze del Senato degli Stati Uniti, ha condotto un’inchiesta sui beni pubblici di 11 musei d’arte privati che godono dell’esenzione fiscale grazie all’articolo 501c (3), tra cui figura anche Glenstone. Le domande riguardavano gli orari di apertura e il numero di visitatori, oltre ai prestiti e alle sovvenzioni. In una lettera conclusiva all’Internal Revenue Service (Irs), il senatore esprimeva preoccupazione circa il fatto che «alcuni musei non sono facilmente accessibili al grande pubblico» e che «questa sezione del nostro codice fiscale si presta a essere sfruttata in maniera poco trasparente».
Glenstone «non meritava di rientrare nella sezione 501c(3)», spiega Mitch, aggiungendo che lui ed Emily hanno già chiesto all’Irs «che cosa possiamo e cosa non possiamo fare». I Rales sono convinti che i nuovi servizi, tra cui due caffè e un parcheggio più grande, aumenteranno di molto il numero di visitatori, da 25mila a 100mila all’anno (l’afflusso durante i dieci mesi di durata della mostra di Roni Horn nel 2017 è stato di 12.500, stando a quanto dichiarato da una portavoce). L’ingresso è gratuito ma occorre prenotare per mantenere «l’atmosfera serena e contemplativa di Glenstone». Il limite attuale di circa 400 persone al giorno è un «work in progress», afferma Mitch. L’apertura potrebbe passare da quattro giorni a settimana a «cinque e forse anche sei». Prime indicazioni suggeriscono che la richiesta è in crescita: tutti gli ingressi previsti ogni mezz’ora per novembre sono esauriti.
Ciò nonostante, Emily afferma che non misureranno il successo di Glenstone dal numero di presenze, ma in base a criteri «qualitativi», come i sondaggi dei visitatori e le testimonianze di gruppi scolastici. Tra tutti i musei del «tour» di studio dei Rales, il Louisiana si è distinto per «la pura delizia che suscita a livello locale, dichiara Emily. Vogliamo che la comunità senta di appartenere a questo museo».
Ostacoli lungo il cammino
Il percorso non è stato facile. «Il singolo processo più difficile è stato quello di ottenere il permesso dal Montgomery County nel 2012 per l’allacciamento al sistema fognario pubblico, tra le critiche degli ambientalisti», dice Mitch. Progettato come un’esperienza combinata di arte, architettura e natura, Glenstone ora ha un centro ambientale con mostre e lezioni di architettura ecologica del paesaggio e sostenibilità.
La Fondazione sta anche affrontando una causa da 24 milioni di dollari intentata ad agosto dalla Hitt Contracting, la società edile che ha supervisionato l’ampliamento, per difformità nel progetto e «infinite varianti», con conseguenti ritardi e costi aggiuntivi. Indipendentemente dall’esito, è improbabile che questo possa distogliere i Rales dal progetto di voler lasciare un’eredità a lungo termine. Glenstone «sarà generosamente sovvenzionata per proseguire la sua attività di acquisizione per un secolo», dice Mitch, che ha in programma la creazione entro 5-10 anni di un fondo e di «un Cda di prim’ordine». Emily cita la Frick di New York come modello di un museo che si è sviluppato preservando i gusti del fondatore. I successori della coppia saranno indirizzati all’acquisto esclusivamente di opere di artisti già presenti nella collezione, con il vincolo di smettere una volta scomparso l’artista. «Vogliamo concentrarci su questo momento creativo: il XX e XXI secolo», conclude.
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