Federico Castelli Gattinara
Leggi i suoi articoliLe notizie si inseguono le une con le altre, capire è difficile, farsi un’idea precisa del Paese oggi, ancora di più. La rivolta scatenata dall’uccisione il 16 settembre scorso di Mahsa Amini, 22 anni, da parte della polizia «morale» è nelle piazze e, come ai tempi della caduta dello scià Reza Pahlavi nel 1979, dagli studenti si è estesa ai lavoratori dei pozzi petroliferi, ganglio economico fondamentale, anche se oggi un po’ meno di allora. Ci sono morti, troppi, finora oltre 200, centinaia di arresti, le proteste di personalità della cultura e dello sport, l’incendio del carcere di Evin a Teheran, una notizia dietro l’altra, sempre più incalzanti.
Il nostro viaggio in Iran, dal 26 settembre al 10 ottobre, ha destato una comprensibile preoccupazione. Anche perché non funzionava niente, non internet, tutti i social bloccati, davamo notizie tranquillizzanti tramite Gmail, unico canale libero, e rare telefonate. Eppure in quelle stesse piazze, tra quella gente, non si avvertiva l’odore sulfureo della rivolta, che pure c’era. Il tessuto sociale pareva tranquillo, forse rassegnato.
Le poche notizie degli scontri a cui accedevamo sembravano parlare di un altro Paese. Abbiamo viaggiato in tranquillità tra persone di una cordialità e gentilezza commoventi. Mai visto un popolo così aperto, curioso, partecipe. Con un grande orgoglio e voglia di riscatto, e una pacatezza già tutta orientale, senza però la riservatezza estrema dei popoli d’Oriente, che difficilmente ti permettono di avvicinarti davvero. Si respiravano una cultura e una complessità plurimillenarie.
In giro per l’altopiano iranico, ci siamo riempiti gli occhi di bellezza. Dispiace sempre visitare un Paese attraversato da rivolte per la libertà, ma della ferocia del regime non abbiamo visto altro che raggruppamenti di poliziotti antisommossa in qualche piazza delle più grandi città e suoni di clacson di protesta dalle macchine in corsa. Il regime è feroce, senza giustificazione alcuna.
Però rimaniamo sconcertati nel vedere il quartiere ebraico di Isfahan con tutte le 17 sinagoghe restaurate, anche se di questa antica comunità non restano che 1.500 membri, con solo una sinagoga in funzione. O l’eccezionale stato di conservazione del quartiere armeno e della seicentesca Cattedrale di Vank, letteralmente tappezzata di affreschi. E i commoventi siti archeologici nel Sud del Paese: Persepoli, le tombe reali, Pasargade con la tomba di Ciro, dove non sono pochi gli interventi compiuti nel corso degli anni dall’Istituto Centrale per il Restauro italiano e non solo, sempre seguiti dal nostro giornale.
Qualche perplessità suscita invece l’immenso sforzo internazionale di ricostruzione della città vecchia e della cittadella di Bam, devastate dal terremoto del 2003, che causò oltre 40mila morti. Si tratta del più grande complesso al mondo costruito in terra cruda, rimesso in piedi con un intervento sì filologico ma con un risultato che ricorda più i set cinematografici di Cinecittà che non un luogo vissuto per secoli.
In due settimane non si poteva che visitare una parte infinitesima di un Paese così ricco di storia e grande oltre cinque volte l’Italia. Ma è stato sufficiente perché ci rimanesse impressa una traccia indelebile, anche per lo stato di conservazione del patrimonio culturale sorprendentemente buono. Nessuna limitazione, per il momento, è peraltro riscontrabile nella visita ai monumenti e ai musei, tutti regolarmente aperti e accessibili ai pur numericamente ridotti (in queste settimane) viaggiatori internazionali.
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