Theaster Gates (Chicago, 1973), fino al 27 luglio espone le sue più recenti opere monumentali nella mostra «Black Mystic» allestita nella sede della galleria Gagosian a Le Bourget, in Francia. Contemporaneamente, il Mori Art Museum di Tokyo gli dedica, fino al primo settembre, la prima mostra personale in Giappone intitolata «Afro-Mingei».
Qual è stato il suo primo shock estetico?
Quando andavo a scuola a Chicago, salendo sull’autobus vidi una coppia vestita con bellissimi abiti di un’altra epoca. Avevo quattordici anni ed era la prima volta che scoprivo che le persone possono avere preferenze in termini di aspetto personale, sviluppare un proprio stile e che questo può cambiare il modo in cui gli altri ti percepiscono. Questo è stato molto importante per me, perché credo che all’epoca volessi davvero trovare un’identità che si adattasse al mio modo di pensare. Ma potevi indossare solo i vestiti che ti stavano intorno, comprati nei negozi locali. Questa coppia mi ha davvero colpito.
Perché e come è diventato un artista?
Non ho mai detto di essere un artista prima di Documenta 13. Prima di allora pensavo di essere una persona creativa, mi piaceva fare cose, mi identificavo come un ceramista, ma sapevo di essere più di questo. Documenta è stato un punto di svolta che mi ha permesso di sentirmi legittimato come artista, perché gli altri mi definivano artista. In un certo senso, mi hanno detto: «Se prima non lo eri, ora devi essere certo di essere sicuramente un artista». Ma le etichette non sono mai state molto importanti per me. Forse è per questo che non mi sono mai limitato a un solo mezzo espressivo. Ho sempre amato la musica quanto l’artigianato, il lavoro concettuale o un qualche tipo di coinvolgimento nella comunità. Sono stato in grado di navigare nel mondo senza dover essere totalmente sicuro di ciò che sono. Limitarmi mi impedirebbe di dire ciò che voglio dire. Si tratta di avere una mentalità aperta e tornare a una definizione molto più antica di artista. È un concetto molto rinascimentale: se volevi diventare un pittore, dovevi studiare anatomia, teosofia, astronomia, teologia, chimica e botanica, perché dovevi sapere di più per poter praticare il mestiere di base.
L’anno scorso ha presentato «Min | Mon» nella Grande Halle del Luma di Arles. Il Mori Art Museum di Tokyo le dedica attualmente una mostra intitolata «Afro-Mingei». Lei paragona questo movimento giapponese, che enfatizza l’artigianato, al movimento Black is Beautiful. Quale legame vede tra i due?
Il Mingei e l’idea di artigianato popolare mi interessano da circa vent’anni. Ho frequentato il Giappone per tutti questi anni e la filosofia, la religione e i valori estetici giapponesi mi hanno nutrito, sia che mi trovassi nel Paese o meno. Con «Afro-Mingei» ho pensato ai movimenti giapponesi, coreani e cinesi che hanno fatto seguito a quelli europei. In questo momento, in cui l’enfasi è posta sull’identità nera, sto cercando di articolare il fatto che la blackness non esiste solo in relazione alla whiteness, né come dispositivo monolitico in sé. Sono nero e sono influenzato da molte cose e da molte persone. Queste influenze hanno contribuito a plasmare quella che la gente immagina essere una pratica molto nera. «Afro-Mingei» è un riconoscimento del valore collaborativo che ho tratto da un incontro profondo con la mia vita creativa in Giappone. Sono cresciuto comprendendo l’importanza di resistere a tutto ciò che potrebbe cercare di distruggere il mio orgoglio culturale. Lo slogan «Il nero è bello» era un modo per rafforzare la mia identità. Ho capito che anche altri popoli dovevano affrontare la sfida di resistere all’Occidente, o di resistere a certi valori predeterminati da un potere coloniale esterno. I giapponesi, pur trovandosi in una posizione coloniale, stavano anche resistendo a una sorta di imperialismo. Per me l’artigianato e questo tipo di pratica concettuale sono atti di resistenza a un codice culturale dominante, imponente o egemonico. Il Mingei e la continua creazione di oggetti di bellezza quotidiana da parte di artigiani anonimi era un atto di resistenza culturale. A Tokyo presentiamo opere provenienti dalla Corea, da Taiwan e dal Giappone rurale. La mostra è un modo per attirare l’attenzione su queste due ideologie complementari, sui prodotti di queste due ideologie in me e sulla loro influenza sulla mia pratica.
Come ha proceduto alla selezione delle opere e alla progettazione della scenografia? Qual è lo scopo di questa mostra al Mori Art Museum?
È ragionevole dire che metà di questa mostra è una piccola retrospettiva. È la prima volta che il mio lavoro viene esposto in una grande mostra in Giappone. I curatori volevano che il pubblico giapponese si facesse un’idea della storia dei miei spazi a Chicago, della mia pratica, della mia scultura e della mia pittura. L’altra metà della mostra è speculativa e onorifica. Che cos’è Mingei? Ho cercato di rispondere a questa domanda attraverso la scultura e l’attivazione dello spazio. La parte onorifica è un omaggio al grande maestro Koide, un famoso ceramista di Tokoname morto qualche anno fa. Suo figlio stava cercando di decidere che cosa fare con la sua eredità. Allo stesso tempo, stavo pensando a come condividere la ricca storia di Tokoname con la gente del mio Paese. Volevo creare una sorta di piccolo museo della ceramica di Tokoname. Quando ci siamo incontrati, è stato una sorta di matrimonio perfetto: lui voleva esporre la collezione di suo padre e io volevo una collezione per poter studiare le forme Tokoname e imparare da loro come artigiano. Quindi parte della mostra sarà un omaggio a Koide e ad altri quattro ceramisti Tokoname. Come forma di rispetto per l’opportunità che il Mori Art Museum mi ha dato, voglio onorare le persone che mi hanno formato includendole nella mostra.
Ha studiato ceramica a Tokoname, in Giappone, dove ora produce sake con l’azienda locale Hakurou. Lei ha un rapporto speciale con la terra del Sol Levante. Com’è nato? Che cosa la attrae così tanto della cultura giapponese?
Ci sono arrivato in modo piuttosto pratico. Il maestro del mio insegnante, un certo Paul Soldner, un importante ceramista californiano, si recò in Giappone negli anni Ottanta. La sua allieva, la mia insegnante Ingrid Lilligrant, ha fatto il viaggio negli anni Novanta. Dopo aver creato per anni e aver conseguito un diploma, sono tornato da Ingrid e le ho detto: «Voglio saperne di più, voglio progredire nel mio mestiere». Mi ha risposto che era giunto il momento di andare in Giappone e ha scritto una lettera in tal senso all’Iwcat (International Workshop of Ceramic Art di Tokoname). L’estate successiva sono riuscito ad andarci. Era il 2004, quindi sono 20 anni che vengo a Tokoname. Credo che il mio interesse per il Giappone sia un po’ come tutti gli altri miei interessi. All’inizio era solo un seme. Facevano delle bellissime ceramiche. Ho potuto interessarmi da vicino a un vasaio, alla sua vita e al suo lavoro, a differenza di quanto è accaduto spesso nella storia del saccheggio del continente africano, dove ci si è accontentati di una regione generica, di un periodo approssimativo. Il Giappone ha scritto la storia dei suoi eroi. Mi sono interessato a queste storie nello stesso periodo in cui studiavo i rudimenti del Taoismo e del Buddhismo zen. Ho scoperto il Racconto di Genji (il Genij Monogatari è un romanzo dell’XI secolo scritto dalla poetessa e scrittrice Murasaki Shikibu vissuta nel periodo Heian ed è considerato un capolavoro della letteratura giapponese, Ndr) e ho preso lezioni di giapponese. Era un piccolo seme. Mi sono reso conto che le relazioni che avevo costruito nel tempo con quattro o cinque persone in Giappone erano sufficienti per farmi tornare e fare altre domande. Penso davvero che i miei arazzi, i miei dipinti su catrame, il mio lavoro cinematografico siano in qualche modo pieni di questo profondo e costante rispetto per i valori che ho in parte acquisito in Giappone.
Nel 2019 abbiamo realizzato un’intervista durante la sua mostra al Palais de Tokyo di Parigi, la prima in Francia. Ci siamo rivisti l’anno scorso a Chicago, dove abbiamo visitato insieme i suoi numerosi progetti nel South Side. Perché ha creato lì la Rebuild Foundation e che cosa sta facendo?
Per me, «Rebuild» è una pratica concettuale a sé stante. Circa dieci anni fa, ho avuto l’impressione che nessuno fosse interessato alla vita culturale del South Side (è una delle tre macro aree centrali di Chicago, Ndr). Inizialmente ho pensato che, considerato l’abbandono che vedevo intorno a me, avrei dovuto cercare di contribuire alla vita culturale del quartiere in cui vivevo, e farlo come artista, utilizzando una piattaforma per dare vita a incredibili iniziative culturali. In questo senso, quindi, per me non è mai stato un progetto attivista, ma sempre un progetto concettuale. La domanda era: «Può un artista contribuire al benessere culturale di un luogo? E come possono gli artisti contribuire? E posso farlo in modo significativo?». Ho sempre pensato a Donald Judd, a Dominique de Ménil e alla Fondation Dia. Mi sono chiesto che cosa sarebbe successo se avessi applicato lo stesso rigore intellettuale e concettuale in un luogo in cui le persone potessero confrontarsi con quello che faccio, partecipare o scegliere di non partecipare, o esprimere le loro esigenze nello stesso momento in cui io esprimo il mio interesse artistico. Abbiamo cercato di creare un progetto dimostrativo per altri artisti, per dimostrare che possiamo essere importanti attori sociali nelle nostre città. E che se ci mettiamo la stessa energia che mettiamo nel progettare mostre, possono accadere grandi cose.
La sua idea è quella di creare un modello che possa essere replicato altrove. In effetti, quelli che lei chiama «Projects Dorchester» stanno contribuendo alla rigenerazione urbana di questo quartiere di Chicago. La fondazione mette a disposizione della comunità una biblioteca, un caffè, giardini comunitari, una casa per persone in difficoltà... Organizzate eventi culturali, mostre e feste. La collezione di vinili del dj Frankie Knuckles, il «padrino della musica house», che avete acquisito a scopo di archiviazione, è visibile presso la fondazione.
«Rebuild» è una mostra permanente che cresce esponenzialmente ogni anno. È un organismo vivente che continua a nutrire una comunità. In questo senso, non è militante, è semplicemente giusta. Una parte della mia formazione si è svolta in ambito urbanistico, quindi è abbastanza logico che uno degli aspetti della mia pratica sia la ricreazione della città. Ho semplicemente cercato di usare le mie capacità creative per avere un impatto sulle cose. A volte questo avviene nei musei, a volte per strada.
Abbiamo visitato il sito di un’ex scuola che lei ha trasformato in un incubatore artistico e in una residenza per artisti di colore, «The 6 Flat». A che punto è il progetto?
«The 6 Flat» è stato completato e la prima mostra di mobili scultorei è stata realizzata da uno straordinario artista-designer, Michael Bennett. Attualmente stiamo selezionando i prossimi artisti che occuperanno l’edificio. Lo spazio riservato agli artisti è magnifico; avremo coreografi, dj, designer, scrittori... Sarà un nuovo centro molto speciale. Speriamo di accogliere due o tre artisti principali all’anno e altri artisti che potranno usufruire dello spazio. La scuola aprirà nel 2025 e gli archivi e gli studi degli artisti continueranno a vivere lì. Vogliamo davvero riunire persone che usano il loro talento per rendere il mondo migliore.
La questione dell’orgoglio nero è al centro del suo lavoro. Il razzismo è stato spesso denunciato come sistemico negli Stati Uniti. Secondo lei, il movimento Black Lives Matter ha cambiato questa situazione?
È una domanda difficile. Black Lives Matter è stato estremamente importante, non solo perché ha aiutato le persone a guardare alla questione del razzismo, ma anche perché ha portato le persone di tutto il mondo a pensare di più alla complessità del razzismo. Non direi mai che un movimento è riuscito o fallito. Ha fatto sparire il razzismo? Assolutamente no. Il razzismo non può essere risolto solo dai neri. Ma quello che ho imparato è che le persone sono molto sensibili alla questione della razza, che non è separata dalla questione del privilegio e della classe. Vent’anni fa pensavo di non poter contribuire a cambiare le cose. Oggi penso di poterlo fare, soprattutto grazie alle mie conoscenze, alla mia pratica artistica e alle mie esperienze. Voglio contribuire all’armonia che è possibile creare intorno a me. In un certo senso, «Rebuild» è stato concepito come una risposta molto umile a problemi reali. Mi sono semplicemente concentrato su ciò che potevo fare con quello che avevo.
La galleria Gagosian di Le Bourget espone i suoi lavori più recenti, arazzi monumentali realizzati con catrame su materiali industriali per tetti e opere realizzate con la fiamma ossidrica... Come sono nati?
«Black Mystic» è a cavallo tra diversi mondi. Uno è quello di cercare di aprirmi alla possibilità della scultura e di altri materiali, per superare quello che per me è stato un tremendo periodo di lutto (accanto alle opere è esposto il bollitore di catrame ereditato dal padre, piccolo imprenditore edile specializzato nella costruzione di tetti, che ora è morto, Ndr). Si tratta di guardare alla scala in cui lavoro con i materiali usati per il tetto, che è simile alla scala reale del materiale. Questo materiale di copertura in poliestere impregnato di bitume, noto come «torch down», viene fornito in rotoli di oltre 9 metri per 1 metro. Quando guardo questo rotolo e alla potenza di un tetto, mi chiedo che cosa potrebbe accadere se usassi il materiale al massimo delle sue potenzialità. Questo mi permette di lavorare sulla scala dei cartelloni pubblicitari, delle insegne pubbliche e della pubblicità. Prendo questi materiali, che ho realizzato con un approccio molto più domestico, e ne libero la scala verso quella che ritengo essere la vera natura del materiale. Va oltre il domestico. Il tetto dovrebbe essere il tetto, non il muro. «Black Mystic» parla anche di come la fiamma, la torcia e il processo di realizzazione di queste opere più grandi siano un rituale personale; manipolare il materiale in modo diverso dalla sua funzione naturale richiede un’alchimia leggermente più sfumata. Per molti versi, questi grandi dipinti sono sculture. Sono dipinti perché sono bidimensionali. Sono sculture perché richiedono un diverso tipo di materiale e di stratificazione. Soprattutto, la mostra riguarda l’atto di creare.
A quali altri progetti sta lavorando?
Quest’anno sto organizzando due residenze per artisti neri in concomitanza con le mie mostre, uno ad Arles, in Francia, con la Luma Foundation e uno a Houston presso il Camh. Sono lieto di ospitare una mostra nella mia casa, la Stony Island Arts Bank di Chicago, che presenta le mie riflessioni in corso sull’eredità della Johnson Publishing Company. Si tratterà di un restauro di tutti i beni fisici che siamo riusciti a recuperare dagli uffici della Johnson Publishing Company e del reimpiego di questi arredi per creare un’installazione sociale e una lounge presso la Arts Bank. Sono anche molto entusiasta del fatto che il nostro lavoro sarà esposto in Giappone e sotto gli auspici di Dorchester Industries, dove sto costruendo una piattaforma creativa per altri artisti, designer e partner artigianali.
Come vede evolversi il suo lavoro da quando ha iniziato?
È in continua evoluzione. Non ho mai sentito il peso di rimanere nello stesso posto, ma sento che sto sempre rivisitando i modi di creare. La ceramica e la scultura fanno parte della mia vita da molto tempo, così come questa continua riflessione sulla storia e l’uso delle collezioni per celebrare importanti momenti culturali del passato. Se c’è un’evoluzione, è nel senso che mi impegno a fare un lavoro che sia prima di tutto e soprattutto per me e sulle cose che voglio capire meglio. Dopo gli ultimi due anni di lutto e di sviluppo delle mie capacità artigianali, mi sento più riflessivo.
Quale consiglio darebbe a un giovane artista?
Conoscere a fondo il motivo per cui si sceglie di creare e, se si conosce il motivo, attenersi ad esso.