Gloria Gatti
Leggi i suoi articoli«Art is not a crime» postava scaramanticamente su Instagram il 20 maggio 2020 la 3035 Art Gallery di Amsterdam, oggi messa sotto sequestro dall’autorità giudiziaria olandese a seguito di rogatoria internazionale. L’arte è invece stata sbattuta di nuovo in prima pagina come mezzo per eccellenza per lavare i soldi del narcotraffico, con un evidente allarme degli operatori del settore. Ma di arte, nella vicenda che ha coinvolto Andrea Deiana, incolpato di autoriciclaggio di cui all’art 648 ter c.p., ce n’era ben poca.
Banksy, così si faceva chiamare nelle chat criptate l’improvvisato gallerista di Terracina, secondo il gip di Milano parrebbe essere a capo di uno strutturato sistema di spaccio internazionale di stupefacenti e aver usato la sua società come «lavatrice» per simulare la vendita di poster, stampe, litografie e addirittura scarpe personalizzate di artisti minori come Alice Pasquini e IABO, da lui esposti in mostre personali, e «spacciando» persino la moglie come autrice di opere quotate.
Grafiche e collectibles di valore mai superiore a 1.000 euro, cioè sotto la soglia di segnalazione, erano fittiziamente acquistati da persone e società che dietro un compenso del 2-3% effettuavano bonifici bancari sul conto della galleria in cambio di denaro contante ricavato dal narcotraffico.
Unica eccezione, un bonifico da 30mila euro per l’acquisto di una non meglio identificata opera di Andy Warhol e un’amicizia di vecchia data con Raffaele Imperiale, noto anche come il «boss dei Van Gogh» e nella cui proprietà a Castellamare di Stabia nel 2016 sono stati ritrovati la «Spiaggia di Scheveningen prima di una tempesta» (1882) e «Una congregazione lascia la chiesa riformata di Nuenen» (1884-85), rubati nel 2002 dal Van Gogh Museum di Amsterdam e da lui comprati al mercato nero con le ricchezze accumulate tramite le attività criminose.
Saviano in Gomorra scrive che «si crede stupidamente che un atto criminale per qualche ragione debba essere maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo» e questa operazione al momento, almeno per quel che concerne il côté artistico, non era per nulla sofisticata.
Le opere non sono state utilizzate come accaduto in rari casi in passato in quanto beni mobili non registrati, di modeste dimensioni, agevolmente trasportabili, che possono incorporare un valore molto elevato e prestarsi per trasformare il denaro di provenienza illecita in un bene facilmente circolabile anche in clandestinità, ma solo come cose di poco prezzo, sotto la soglia di segnalazione e come causale pretestuosa per false fatturazioni. Uno schema in cui nulla sarebbe cambiato se al posto delle grafiche si fosse simulata la vendita di foulard di seta o di sciarpe di cashmere.
Val la pena rammentare quali sono gli obblighi e soprattutto le responsabilità in cui possono incorrere gli operatori del settore. La normativa antiriciclaggio è applicabile ai soggetti che esercitano attività di commercio di cose antiche in virtù della dichiarazione preventiva prevista dall’articolo 126 Tulps, ai soggetti che esercitano l’attività di case d’asta o galleria d’arte ai sensi dell’articolo 115 Tulps, che soggiacciono a tre obblighi fondamentali: identificazione del cliente e «adeguata verifica della sua operatività», registrazione delle operazioni (oltre la soglia) e segnalazioni di operazioni sospette. In conformità alla Terza direttiva 2005/60/CE.
Con il recepimento della Quinta direttiva europea D.Lgs. 125/19 gli obblighi sono stati estesi anche ai soggetti che custodiscono o commerciano opere d’arte ovvero che agiscono come intermediari nel commercio delle stesse, qualora tale attività sia effettuata all’interno di porti franchi e il valore dell’operazione, anche se frazionata, o di operazioni collegate, sia pari o superiore a 10mila euro.
Per quanto concerne la responsabilità di galleristi e mercanti, va segnalata la sentenza n. 7241 del 24 febbraio 2020 della Cassazione Penale che ha confermato la condanna della Corte d’Appello di Venezia, inflitta a un imprenditore per aver acquistato con denaro proveniente dalla bancarotta di una nota società per azioni 22 opere d’arte «blue chip» tra cui Picasso, Warhol, Fontana e Basquiat, considerate quale «trasformazione di denaro di illecita provenienza in beni di altro genere».
In primo grado anche il gallerista che gli aveva venduto le opere, acquistate poco prima da una nota casa d’aste italiana, poi fallita, era stato condannato per riciclaggio sulla base del fatto che «la sua responsabilità era fondata sulla peculiarità dell’operazione eseguita per circa 16 milioni di euro in un lasso di tempo ristretto e con il non certo usuale acquisto per “stock” non coerente con la natura dei beni», nonché sulla considerevole remunerazione dallo stesso percepita per l’operazione. Nel giudizio d’appello invece il gallerista era stato assolto in quanto era stata ritenuta mancare la prova dell’elemento soggettivo del reato ascrittogli, ossia la consapevolezza da parte sua della provenienza illecita delle somme utilizzate per l’acquisto delle opere.
La giurisprudenza inoltre richiede al mercante il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Sempre Saviano, in Gomorra, racconta anche che «Luigi Vollaro, detto ’o califfo, possedeva una tela del suo prediletto Botticelli, che parrebbe, poi, aver usato per corrompere un giudice».
Oggi invece è pendente davanti al Tribunale di Perugia un procedimento penale in cui un giudice del Tribunale di Roma, unitamente all’amministratore della società acquirente, sono stati rinviati a giudizio per il reato di riciclaggio relativamente alla vendita in trattiva privata di un dipinto antico di provenienza successoria, risultato essere di importante valore grazie a un’attribuzione a un pittore del Seicento intervenuta dopo un restauro, in quanto pagato con provvista riveniente da due bonifici esteri di elevato importo e segnalati come operazioni sospette effettuati da società aventi sede in paradisi fiscali.
Non si ravvisano precedenti pubblicati in materia di riciclaggio, relativi a transazioni concluse senza intermediari tra privati.
Va evidenziato però che al momento i privati non sono tra i soggetti tenuti alle verifiche imposte dalla normativa antiriciclaggio e neppure destinatari delle linee guida o best practice per un mercato più responsabile e anche la sola incolpazione desta preoccupazione perché se da un lato sarebbe auspicabile a garanzia della correttezza negli scambi una maggiore attenzione anche alle operazioni tra privati, dall’altro questo rischia di avere un effetto paralizzante sul commercio delle opere d’arte, penalizzando tutti i privati, e sono la maggioranza, che non hanno fatture d’acquisto o atti di provenienza con data certa, e magari neppure fotografie datate e premi assicurativi, che si tramandano le opere di padre in figlio e che certamente non sanno cosa sia un KYC e una red flag.
Anche per restauratori, storici ed esperti d’arte valgono le stesse osservazioni fatte per i privati, in quanto sia normativa sia codici etici sono rivolti soltanto agli operatori del settore artistico.
In una delle intercettazioni riportata nell’ordinanza del Gip di Milano, risalente all’estate del 2020, viene fatto un esplicito riferimento alla necessità di «organizzarsi con i bitcoin» ed è ragionevole ipotizzare che anche la criminalità organizzata si sposti verso l’universo parallelo dell’etere, con buona pace del mercato tradizionale dell’arte.
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