Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliFinalmente una mostra dedicata a Lucian Freud (1922-2011), anche se le iniziative sul pittore non sono certo mancate negli anni: ma ora siamo forse messi nelle condizioni di guardare solo la pittura, a lungo messa in ombra e tra parentesi dalla sua personalità debordante. In «Lucian Freud: Nuove Prospettive» alla National Gallery (1 ottobre-22 gennaio 2023), le nuove prospettive sono proprio quelle della pittura, a prescindere dalla troppo ghiotta raccontabilità del nostro: nipote di Sigmund Freud, tedesco fuggito dal nazismo, libertino compulsivo e impenitente perfettamente a suo agio in una bohème londinese, su cui domina la figura sulfurea di Bacon, in cui lo chic aristocratico si mescola agli eccessi di Soho, «amante di» e «padre di» sino alla noia.
In tutto ciò, si era persa la bussola per guardare questo «pittore di realtà» dal temperamento forte e implacabile, di questo erede del Manet di Zola per cui «il soggetto è un pretesto per dipingere», autore di una pittura che è davvero carne e sangue, inestetica ma pulsante di una vitalità che trapela da mille sprezzature. A cominciare dal fatto cruciale, che il soggetto è un pretesto ma insieme quello che assorbe il tempo lentissimo e intensificato della sua costruzione del quadro, che avviene sempre in presenza del modello ma continuamente pensando la grande arte: ci sono il precisionismo nordico, Holbein e Rembrandt e Velázquez (molto Velázquez), la Neue Sachlichkeit e una spruzzata appena appena di Surrealismo, ma mai la loro auctoritas.
Freud gioca la partita non con la storia dell’arte, che per lui non è che un magazzino di forme in cui attingere molto laicamente, ma con la sua idea ossessiva di carne. «Voglio che il dipinto sia flesh, carne», afferma Freud, che con de Kooning condivide l’idea che «la carne è la ragione per cui è stata inventata la pittura a olio». E sull’idea di carne pittorica lavora ossessivamente: e per lui è una forma di vero snudamento del soggetto (le modelle «quando si tolgono i vestiti non sono nude; la loro pelle è diventata un altro tipo di abito»: e a lui ben altro interessa), la cui identità scompare nel dipinto perché non conta nulla, dal momento che esso è diventato un autonomo corpo di pittura.
Va a finire che la «pittura di realtà» viene salvata da uno che la tradisce, e la tradisce perché la capisce, e non tirandosela mai può fregarsene della tradizione dell’esatto figurare. Verso la fine della mostra il potente «Painter Working, Reflection», 1993, uno dei più belli del percorso, è davvero un perfetto autoritratto, desolatamente vero, senza maschera, senza aggettivi.
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