Francesca Orsi
Leggi i suoi articoliQualche settimana fa un quotidiano italiano ha pubblicato una fotografia della stanza da letto di Giulia Cecchettin, barbaramente uccisa dal suo ex fidanzato poco prima della sua laurea. L’immagine ha indugiato sulla sua scrivania, sui libri aperti, sui suoi disegni abbozzati, sul letto lasciato sfatto dalla ragazza la mattina della sua scomparsa, sugli oggetti della sua quotidianità.
In un momento storico in cui tutto ruota attorno alla dinamica del clickbait, un’immagine del genere può, a ragione, essere portatrice di eccessivo voyeurismo. Ma, sottraendo quell’immagine dalle dinamiche editoriali e analizzandola come parte di un immaginario, ci racconta di una ragazza in assenza di lei, della violenza subita pur senza mostrarne i contorni figurativi. Anche così la fotografia può raccontare il femminicidio, con l’evocazione di chi non c’è più, dando nuovo significato alle tracce della sua vita diventate reperti, che entrano nella dimensione della memoria, che acquisiscono senso come elementi di un racconto e non più di una vita vissuta.
La fotografa e visual artist Arianna Sanesi in «I would like you to see me» si muove proprio tra questi tasselli di immaginario, dove l’idea della violenza si annida nella delicata banalità del quotidiano tangibile. Il progetto, nato nel 2015, vuole portare l’attenzione non solo sulle specifiche storie di femminicidi avvenuti in Italia, ma soprattutto su come esse possano essere raccontate e comunicate al mondo, senza uso di retorica visiva e cliché. «Il mio lavoro si basa principalmente sull'osservazione di indizi e tracce, alla ricerca di ciò che è scomparso, di ciò che non può essere visto, di ciò che non può essere mostrato, e da lì inizio a costruire una storia» spiega Arianna per definire la sua progettualità.
Sanesi, con un piglio tra la documentazione forense e il concettualismo autoriale, entra nelle case delle famiglie delle vittime e ne rileva il dolore della perdita, la mancanza. Secondo una metodologia scientifica e oggettiva quello che non ha più volto viene evocato, viene sussurrato, attraverso il racconto visivo di tutto ciò che fa parte della storia ma che è limitrofo e circostanziale all’atto della violenza in sé (documenti processuali, scritte sui muri, oggetti simbolici, ritagli di giornale che illustrano un immaginario patriarcale, porzioni di corpi che mettono in scena, con i loro gesti, un atlante del dolore) e attraverso un apparato testuale che, invece, esplicita e rende manifesta la simbologia visiva delle immagini. In questo modo la storia di Rosa o quella di Cristina, e quella di tante altre donne, viene visualizzata attraverso le parole ed evocata attraverso le immagini, riportandola ai nostri occhi nella sua complessità di lettura.
Chi, trattando sempre di immaginario legato alla violenza contro le donne, torna a far uso del dialogo tra immagini e testo, in cui le immagini suggeriscono la tensione e le parole la manifestano, è anche Mika Sperling in «I have done nothing wrong». Mika, fotografa nata a Norilsk, un piccolo paese della Siberia, ora basata ad Amburgo, qualche anno fa ha preso consapevolezza degli abusi che, da bambina, ha subito da parte di suo nonno, una consapevolezza raggiunta dopo la sua morte e, probabilmente, con la nascita di sua figlia. Anche se nel suo caso il coinvolgimento è diretto, e il suo racconto svela una storia privata, l’equilibrio tra immagine e testo lascia allo spettatore quella completezza di sguardo che serve a non ridurre le storie in «buoni contro cattivi», come è stato per «I would like you to see me» di Arianna Sanesi. Sperling si cala talmente nelle profondità della sua traumatica scoperta da sviscerarla in tre specifiche fasi, affrontandole come si fa per un lutto, come in un processo metodico il cui ultimo passo è la riconciliazione, con sé e con il passato.
In questo momento storico, quando la storia di Giulia Cecchettin è ancora calda e le morti per femminicidio non sono più solo numeri, liste di nomi e sagome senza volto, è giusto agire, è necessario agire, agire per una politica di sensibilizzazione e di educazione, partendo proprio dalla realtà scolastica, dove, forse, le menti dei ragazzi possono essere ancora accompagnate ad una lettura sensibile e complessa di ciò che riguarda la violenza contro le donne. E, magari, le immagini possono aiutare in questo processo o, forse, anche di più, l’equilibrio tra immagine e parola, tra evocazione e manifestazione, come nel caso di «I would like you to see me» di Arianna Sanesi e di «I have done nothing wrong» di Mika Sperling.
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